Paola Valabrega, raccoglie i saggi sullo scrittore composti tra il 1981 e il 2023. L’ipotesi di ricerca è che Levi in tutti i suoi libri rifletta sull’esperienza del Lager, anche se in modi diversi
Un volume può essere un vero libro – compatto, organico, con un tessuto unitario – anche raccogliendo contributi scritti nel corso di quarant’anni? È raro ma può succedere. Per esempio è il caso del Sistema periodico di Primo Levi, che raccoglie all’interno di una cornice – la tavola chimica degli elementi a cui si intreccia l’autobiografia – racconti precedentemente usciti su rivista. Ed è altrettanto il caso di Rebus Primo Levi (LeChâteau), in cui una delle prime studiose di Levi, Paola Valabrega, raccoglie i saggi sullo scrittore composti tra il 1981 e il 2023. L’ipotesi di ricerca in grado di unificare i diversi interventi è che Levi in tutti i suoi libri rifletta sull’esperienza del Lager, anche se naturalmente in modi diversi. Non solo nei libri primo e ultimo – Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati – ma anche nei racconti di fantascienza e fantabiologia, in quelli chimici, nella riflessione sul lavoro, nel romanzo, nell’antologia di letture, negli scritti occasionali, nelle poesie.
Lo dice in qualche modo Levi stesso nell’intervista concessa oltre quaranta anni fa all’autrice allora alle prese con la tesi di laurea. “Preferisco andare sul sicuro, fare un buco e poi rosicchiare dentro a lungo, magari tutta la vita, come fanno i tarli quando hanno trovato il legno di loro gusto” – le sue parole. In una celebre pagina Isaiah Berlin divideva gli scrittori in ricci e volpi sulla scorta di un frammento del poeta greco Archiloco: la volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande, e analogamente letterati e artisti possono essere spartiti tra coloro che spaziano su argomenti diversi e coloro che rimangono per una vita intera fedeli a una sola grande questione su cui tornano più e più volte. Se seguiamo lo schema di Berlin, giocoso ma non futile, per Valabrega Primo Levi va annoverato senza dubbio tra i ricci. Sapeva di essere un riccio e voleva essere trattato come tale – o per usare una sua immagine, una patella attaccata allo scoglio. Oggi il successo straordinario di Levi presso pubblico e critica porta comprensibilmente a mettere in primo piano ogni suo testo. Se la fama globale è conseguenza della bellezza letteraria e della profondità, racchiude allo stesso tempo un implicito invito alla molteplicità centrifuga e un poco volpina dei temi a danno della forza centripeta che li lega tutti. L’idea di Paola Valabrega è che questo centro invece ci sia e che sia il Lager.
Ma Rebus Primo Levi ha anche altri pregi che lo rendono immancabile lettura per tutti gli appassionati dello scrittore torinese. Si apre con l’intervista fatta da Valabrega laureanda in letteratura contemporanea nel lontano 1981, un testo che precorre i tempi, in anni in cui Levi era noto al pubblico, almeno in Italia, ma sostanzialmente ignorato dalla critica. Era premiato e citato, ma come testimone più che come autore. Alle domande, centrate in gran parte su questioni letterarie, Levi risponde con la consueta disponibilità e modestia all’insegna di un basso profilo e di un atteggiamento antiretorico che rivela lo sforzo di fugare possibili sovrainterpretazioni. A un quesito sulle sue frequenti descrizioni della montagna, per esempio, risponde adducendo come unica ragione il fatto di essere andato molto in montagna e dunque di conoscerla meglio di altri ambienti. Sollecitato sulla “frettolosità” e l’inquietudine dei personaggi dei racconti di Storie naturali e Vizio di forma, risponde analogamente di non sapere perché sia così, per poi aggiungere che forse è dovuto al fatto di aver scritto quei testi quando lavorava in fabbrica e aveva sempre troppe cose da fare e poco tempo. Insomma, è lo stesso Levi a ritrarsi di fronte a chi come Valabrega gli si avvicina in quanto scrittore. La ritrosia a intendersi e apparire come scrittore lo porta a evitare di interpretare sé stesso e addirittura a invitare gli altri a non interpretare la sua opera.
L’esilio e la tradizione ebraico-orientale (partendo da molto prima dell’epica partigiana di Se non ora, quando?, e cioè da Se questo è un uomo e dalle poesie scritte subito dopo il ritorno dal Lager), la figura del cerchio e la percezione del tempo, lo scandaglio di una scrittura documentaristica che sulla scorta dei classici esplora i dettagli e compone elenchi, il tema della vergogna di essere sopravvissuti e l’immagine del tarlo che “rode e stride” sono alcuni dei temi che troviamo nel volume. Un saggio ormai classico nella sempre più abbondante letteratura su Levi è quello intitolato “Mano/cervello”, che qualche anno fa ha fornito lo spunto per il documentario Le mani di Primo Levi realizzato da Bruna Bertano per Rai 5. Per Levi la mano è esecutrice ma anche generatrice di idee. Le mani sulla roccia in montagna in compagnia dell’“uomo di ferro” Sandro; la manipolazione degli elementi della natura in laboratorio da parte dei chimici, discendenti moderni degli antichi alchimisti; la scelta dell’antifascismo attivo e della resistenza, che è un modo per prendere in mano il proprio destino; la conoscenza, i cui oggetti – le idee chiare e distinte, che costituiscono l’alternativa alle metamorfosi inconcludenti dello spirito in scena nella scuola gentiliana e fascista – vanno afferrati saldamente perché non sfuggano. Le mani sono tutto questo e le mani dell’homo faber della Chiave a stella Faussone e ancora lo strumento con cui l’uomo è divenuto dominatore del mondo, come già in antichità suggeriva il filosofo Anassagora e nell’Ottocento un autore-scienziato amato da Levi come Darwin. O, se si preferisce, nel cinema la scena in cui uno degli scimmioni di 2001. Odissea nello spazio impugna un osso e lo trasforma in arma – per poi trasformarsi a propria volta in astronave con un match cut che unisce passato e futuro. Mani partecipi del sistema di radicale oppressione descritto in Se questo è un uomo e mani che impugnano la penna per scrivere e segnare un punto – il punto: questo. – nel finale del Sistema periodico, mani che compaiono perfino in un misterioso rebus inviato alla “Stampa”.
Un saggio che si legge tutto d’un fiato è poi quello dedicato al racconto Carbonio. Sappiamo da Levi che è stato il suo primo sogno letterario “in un’ora e in un luogo nei quali la mia vita non valeva molto”. Lo conferma Jean Samuel, il Pikolo del “Canto di Ulisse” di Se questo è un uomo, che si aspettava di leggere non il racconto dantesco dell’ultimo viaggio dell’eroe greco ma proprio la storia di un atomo di carbonio a cui Levi già nel Lager pensava. Nella lettura data da Valabrega emergono numerosi i rimandi di Carbonio all’esperienza vissuta ad Auschwitz. Il carbonio è l’elemento base della vita e viene a rappresentare un sogno di riscatto dopo la Shoah. Un atomo, infatti, non è semplicemente annientabile, nelle parole di Levi “la morte degli atomi, a differenza della nostra, non è mai irrevocabile”. E così il piccolo, invisibile atomo si fa figura del riscatto dopo Auschwitz, contro Auschwitz. Il riscatto di Vanda, di Alberto, dei milioni di sommersi, il riscatto della vita sulla morte. Inoltre Carbonio chiude il cerchio del Sistema periodico che era stato aperto da Argon. Come l’argon è gas inerte, così il carbonio è elemento della vita; come il primo è il passato degli antenati, così il secondo rappresenta il futuro con le sue possibilità per definizione infinite; come Argon raffigura esistenze passive, statiche, in bianco e nero, Carbonio mostra il vortice multicolore della vita attiva e dinamica; come l’uno è gesto di pietas filiale nei confronti di una galleria di figure bislacche e malinconiche, l’altro è vortice di perpetue trasformazioni.
Opposti che si richiamato e che probabilmente per questo Levi pone ai due estremi come primo e ultimo racconto del suo Sistema. Ma a una lettura attenta molto di più del Lager compare in Carbonio, dove assistiamo a una prosopopea dell’atomo, che viene personificato e di cui seguiamo le avventure. Prigioniero del sottosuolo “in un eterno presente”, viene liberato da un colpo di piccone che lo conduce al forno e poi al camino, da cui esce nell’aria. Più avanti lo ritroviamo “inchiodato da un raggio di sole”, e quindi protagonista della fotosintesi, che Levi definisce un “miracolo”, con una doppia allusione al supplizio del Gesù cristiano inchiodato in croce e al miracolo della resurrezione. Dopo una serie tanto arbitraria quanto letteralmente vera di trasformazioni che è soprattutto un “girotondo di vita e di morte”, ci si avvicina al finale. Qui l’argomentazione diventa impotente di fronte al miracolo della vita. Cosa rarissima in Levi, il linguaggio si fa oscuro e allusivo – Valabrega cita a proposito il canto di Ulisse, ma è possibile che Levi guardi anche a Paradiso XXXIII, l’ultimo della Divina commedia, con la sua serie di immagini che mostrano ciò che non può essere oggetto di discorso. Siamo sulle soglie dell’indicibile, le soglie del mistero più grande. Dove il ragionare non arriva, e del tutto eccezionalmente per un positivista come Levi, è il mistico.