L’ebrea berlinese, assassinata ad Auschwitz nel 1944, è la prima rabbina ufficiale della tremillenaria storia del popolo ebraico
Se l’augurio tipico del mondo ebraico – ‘ad mea ve-esrim, che possa vivere “fino a centovent’anni!” – si fosse realizzato, e se non fosse stato per il Reich supposto millenario che le sbarrò la strada, l’ebrea berlinese Regina Jonas sarebbe vissuta fino a quest’anno. Invece la sua giovane vita fu sconvolta il 7 novembre 1942, quando venne deportata dalla Gestapo nel campo di concentramento ‘modello’ di Theresienstadt (riservato a ebrei tedeschi famosi o politicamente utili al regime nazista), dove rimase due anni, allorché, trasferita ad Auschwitz a metà ottobre del ’44, venne uccisa in una data ad oggi imprecisata.
A Theresienstadt erano internati anche l’autorevole rabbino liberal Leo Baeck (1873-1956), che le fu insegnante, e l’allora già noto psicoanalista viennese Viktor Frankl (1905-1997), il futuro padre della logoterapia, il quale chiese a Regina Jonas di aiutarlo nell’opera di assistenza psicologica ai nuovi internati, principalmente allo scopo di prevenire i frequenti suicidi. Nel contempo, questa brillante e determinata ebrea continuò ad animare spiritualmente i perseguitati e i reclusi del campo, fedele alla sua missione che solo nel 1935 le era stata ufficialmente riconosciuta: quella di rabbina. Che noi la si chiami ‘rabbina’ o ‘rabbinessa’ è irrilevante; non era però una rebbetzin o moglie di un rabbino, la quale spesso a sua volta svolge compiti pedagogici in una comunità ebraica… ma Jonas non è stata ‘la moglie di’; aveva piuttosto conseguito ella stessa il titolo rabbinico, e non senza enormi difficoltà. Che piaccia o meno, è la prima rabbina ufficiale della tremillenaria storia del popolo ebraico. A lungo obliato dalla tragedia collettiva della Shoà, il suo caso solo negli ultimi decenni è stato finalmente studiato e la sua memoria giustamente riscattata.
Momento fondamentale della vita di Regina Jonas fu la decisione di iscriversi alla Hochschule für die Wissenschaft des Judentums della sua città, Berlino: l’Alta Scuola per la Scienza del Giudaismo era la più qualificata accademia di studi ebraici in Germania, voluta da Abraham Geiger e da altri esponenti dell’haskalà e del movimento riformato a motivo dell’impossibilità di accedere, in quanto ebrei, al corpo docente delle università tedesche. La Hochschuleaprì i battenti nel 1872 e venne chiusa dai nazisti nel 1942! Nelle sue aule si formarono più generazioni di intellettuali ebrei di grande profilo scientifico, alcuni dei quali approdarono all’università ebraica di Har ha-tzofim, a Gerusalemme, quando venne fondata nel 1925 (Hanoch Albeq e Julius Guttmann, tra gli altri). Regina Jonas vi si iscrisse con una ‘coscienza femminile’ eccezionale per l’epoca: voleva in effetti ricevere il titolo rabbinico, fino ad allora assegnato soltanto a maschi, e preparò a tal fine la sua tesi dottorale analizzando tutte le fonti e provando come non esistesse nei codici e nelle discussioni halakhiche alcuna proibizione in tal senso, ma solo delle consuetudini culturali. La tesi fu approvata nel 1930 e fu apprezzata dal suo docente di Talmud, che però venne a mancare all’improvviso privandola proprio in fondo al percorso dell’agognato titolo di ‘rabbina’. Jonas si rivolse allora a Leo Baeck, leader del giudaismo tedesco di quegli anni e già suo docente alla Hochschule ma questi non se la sentì di rompere le consuetudini (e di fomentare un nuovo fronte di conflitto con il mondo ortodosso) e pertanto non sostenne la causa di quel titolo al femminile. Tuttavia, non senza altre resistenze, un’associazione di rabbini liberali, guidata da Max Dienemann, le diede la semichà nel dicembre 1935. Per la neo-rabbina, prima donna ufficialmente definibile tale nella storia del popolo ebraico, furono anni difficili: la diffidenza non era scemata di colpo e solo in alcuni (pochi) ambienti riuscì ad esercitare l’attività rabbinica per cui s’era formata. Contattò persino il filosofo Martin Buber, sostenitore del sionismo, per tentare di organizzare una propria immigrazione in Palestina. Purtroppo l’orologio della storia tedesca corse più veloce dell’orologio esistenziale di Regina Jonas, la quale venne progressivamente privata dei diritti civili e dei suoi averi (dei libri soprattutto), fino all’arresto e alla deportazione a Theresienstadt, e poi ad Auschwitz, come detto.
Il suo nome uscì dall’oblio solo nel giugno del 1972, allorché lo storico istituto accademico del mondo ebraico riformato d’America, l’allora molto influente Hebrew Union College di Cincinnati (oggi con sede a New York), prese la decisione di conferire la semichà a studentesse adeguatamente preparate e di innovare radicalmente l’halakhà in materia di minian e di chazanut. Nel 1972 fu infatti ‘ordinata’ rabbina riformata Sally Priesand, e allora ci si ricordò del precedente di Regina Jonas. Nel giro di un paio di decenni anche il Jewish Theological Seminary of America fece la medesima decisione e conferì a studiose che avessero completato il curriculum formativo il titolo rabbinico, e anche in questo caso non mancò chi vi si oppose, come ad esempio il grande talmudista recentemente scomparso David Weiss Halivni (1927-2022) che troncò la sua lunga affiliazione scientifico-didattica con il JTS a motivo di questa decisione halakhica. Ovviamente Jonas o Priesand non furono le prime donne a occuparsi di studi rabbinici, ma a loro fu conferito un titolo ufficiale da parte di istituzioni ebraiche riconosciute competenti e autorizzate. Da allora vedere o incontrare una rabbina non è affatto una novità, almeno negli States o in Israele o in Francia o in Inghilterra (in Italia in discorso è ancora nuovo).
Il caso di Regina Jonas è oggi noto anche grazie ad alcune significative biografie, come quella scritta in tedesco da Katharina von Kellenbach (esiste una versione inglese dal 2004) e quella in italiano dell’ebraista piemontese Maria Teresa Milano, Regina Jonas. Vita di una rabbina, Effetà editrice, Cantalupa (TO) 2012. In una conversazione con lo storico Gadi Luzzatto Voghera, la prof.ssa Milano affermava che “non si tratta di dare alle donne quel che hanno gli uomini, ma di dare l’opportunità ad entrambi di vivere secondo i propri desideri cambiando punto di vista. Già nel 1935 Regina Jonas diceva: ‘Dio ha creato uomo e donna uguali nella dignità, non ha posto gerarchie, e dunque l’uomo non ha diritto di porle’” (da SeFeR n.143/2013). Del resto, già nel tardo Rinascimento il rabbino italiano Shmuel Archivolti (Cesena 1530ca-Padova 1611) si era espresso a favore dello studio di materie ebraiche, all’epoca essenzialmente il Talmud, da parte di donne ebree, e lo studioso italo-israeliano Roberto Bonfil ha scritto esplicitamente di una “prospettiva femminista” rintracciabile in Archivolti. La questione è sempre attuale e fa bene, di tanto in tanto, ricordare la fatica di molte donne a ricevere riconoscimenti in questo ambito di studi tradizionalmente appannaggio del mondo maschile.
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma