Breve trattato sulla rarità, preziosità e bellezza della vita stessa
Quest’anno, come periodicamente succede, il capodanno ebraico cioè Rosh hashanà – letteralmente la testa dell’anno – inizia di shabbat e prosegue il giorno successivo. Sebbene la mitzwà, il precetto fondamentale, di questa solennità liturgica sia l’ascolto del suono dello shofar (il corno ovino che viene insufflato ripetutamente durante i servizi religiosi in sinagoga), nel primo dei due giorni festivi lo shofar non può essere usato e dunque non viene suonato. Lo stabilisce l’halakhà, la tradizionale normativa del giudaismo rabbinico. Per quale ragione? Per rispondere cedo la parola a un maestro contemporaneo, poco noto da noi in Italia ma che gode grande prestigio negli Stati Uniti, il rabbino modern-orthodox e antico allievo di Joseph Soloveitchik rav Irving Itzchaq Greenberg, un giovane novantenne ancora sulla breccia:
Se il primo giorno di Rosh hashanà cade di shabbat, allora la mitzwà di suonare lo shofar come pure il rito del tashlich [con il quale si buttano briciole di pane in un corso d’acqua o in mare, a simboleggiare il liberarsi dei propri peccati] sono posticipati al secondo giorno. Quando era funzionante il Tempio di Gerusalemme, lo si suonava anche se era shabbat. A Yavne, città che fu al centro della ricostruzione del giudaismo dopo la distruzione del Tempio, rabbi Yochanan ben Zakkai decise che occorreva continuare quell’usanza [di suonare lo shofar anche di shabbat] ma incontrò una fiera opposizione. Più tardi, quando non vi fu più un’autorità religiosa centrale, prevalse ovunque la tradizione di non suonarlo di shabbat, e la decisione rabbinica fu motivata dal timore che la gente lo trasportasse di sabato in aree pubbliche, dove nessun trasporto è consentito di shabbat.
Il posticipo di questa mitzwà così altamente simbolica e così emotivamente coinvolgente non ne diminuisce certo il valore; anzi, l’attesa spinge a un più intenso apprezzamento.
È noto che lo shofar dev’essere un corno di ovino, solitamente di un ariete, ma uno di capra o di antilope o di gazzella è pure permesso. Il Talmud, nel trattato Rosh hashanà 26a-28a, descrive in dettaglio le qualità di questo strumento musicale ad uso religioso, probabilmente l’oggetto rituale ebraico più antico ancora impiegato nelle liturgie ebraiche (ma anche in occasioni solenni, come l’accoglienza del presidente dello stato di Israele in una comunità della diaspora) e che ci connette, a distanza di quasi venti secoli, con la vita del secondo Tempio in eretz Israel. L’ariete evoca la narrazione dell’aqedat Itzchaq, il brano della “legatura di Isacco” (cfr. Bereshit/Gn 22) che si legge dalla Torà proprio il secondo giorno della festa. Lo shofar non può essere un corno di bovino, che ricorderebbe a Qadosh Baruch Hu, al Signore benedetto, l’atto di idolatria commesso dai figli e dalle figlie di Israle ai piedi del Sinài, allorché si forgiarono un vitello aureo come icona della divinità (cfr. Bereshit/Gn 32).
Tra le caratteristiche che deve avere uno shofar per essere kasher vi sono quelle dell’integrità e, in qualche modo, della forma curva (anche se alcuni maestri sostengono che anche gli shofarim diritti vadano bene, anzi vadano meglio “perché esprimono la tensione diretta verso la libertà”). Molte spiegazioni sono addotte per giustificare siffatte caratteristiche, ma la curvatura è per lo più associata al carattere introspettivo, di ripiegamento in se stessi, della festa che inaugura i “giorni del timore e della teshuvà”. A Rosh hashanà occorre curvarsi, dunque, quasi piegarsi sulla propria coscienza e recuperare un atteggiamento di esame interiore che può assomigliare a questa semi- contorsione, spingendosi fino alla sofferenza. Quale teshuvà seria non comporta austerità e introspezione ossia la fatica del cambiamento per migliorarsi? La curvatura dello shofar è un memento di questo sforzo, della torsione e della tensione che accompagnano un vero esercizio penitenziale.
Rav Irving Greenberg fa anche notare come, seppure il tema della morte sia ciò che il giudaismo cerca di esorcizzare e per quanto ogni precetto della Torà punti a valorizzare la vita – questa vita, qui e ora – lottando contro ogni dimensione mortifera, Rosh hashanà fa eccezione in quanto yom hazikaron ossia in quanto “memoriale” del giudizio divino e del verdetto della corte suprema, nella quale il Signore benedetto siede come Giudice di tutta la terra lasciandoci, per così dire, in sospeso tra la vita e la morte per dieci giorni (chiamati appunto yamim noraim, “giorni terribili”). Guardare in faccia la mortalità, specie come conseguenza della nostra condotta morale, è tra le note peculiari di questa festività, il capodanno ebraico, che ben poco ha a che fare con champagne e fuochi d’artificio. Come insegna il Maimonide nelle sue Norme sulla teshuvà:
Come nel momento della morte si valutano meriti e peccati, così anche ogni anno a Rosh hashanà si valutano i peccati di ogni creatura vivente confrontandoli con i suoi meriti. Chi è trovato tzaddiq [totalmente giusto] è confermato alla vita; che è trovato rasha‘ [totalmente malvagio] è confermato alla morte; chi è giudicato benonì ossia medio, perché in lui/lei meriti e trasgressioni sono pari, ottiene una proroga [nel giudizio] fino a Yom kippur. Se prima di allora farà teshuvà, allora sarà conferamato alla vita ma in caso contrario sarà confermato alla morte. (Mishnè Torà, Hilkhot hateshuvà III,3).
Il suono dello shofar non è certo simile a quello di un violino o di un’armonica: la sua durezza evoca piuttosto il rigore e persino la trascendenza del Giudice divino, che usa misericordia con chi vuole ma vuole anche che ci si penta.
A capodanno temi biblici come la prova di obbedienza di Abramo e Isacco si mescolano a temi esistenziali come l’esame di coscienza, la confessione dei peccati e il rinnovamento interiore. Non a caso alcuni midrashim sostengono che i quaranta giorni che vanno dall’inizio del mese di Elul e i primi dieci giorni del mese di Tishrì – fino a Kippur – corrispondano al periodo che Mosè trascorse sul Sinài per forgiare le seconde tavole della Legge, quelle che dovevano sostituire le prime due andate in frantumi dopo l’atto idolatrico. Potremmo ben dire che si trattò di “rinnovare le tavole”, di scriverle una seconda volta, sì che esse potessero davvero venir comprese, accolte e osservate. Rinnovarsi implica spesso rifare qualcosa daccapo, quasi raddoppio e ripetizione: shanà, il termine ‘anno’ in ebraico, viene da una radice che indica ripetere e rinnovarsi del tempo (delle lune), una specie di eterno ritorno delle stagioni che però non si ripetono mai uguali a se stesse, in virtù della convinzione (o della fede) che la nostra esistenza, e la storia, sono soggette a un giudizio superiore per il quale ogni gesto, e azione e intenzione contano e fanno la qualità morale della nostra vita.
Come rav Greenberg ripete spesso:
Nessun atto nella nostra vita è banale e insignificante, perché da ciascun atto può dipendere il senso complessivo della nostra come dell’altrui esistenza.
Da qui la massima allerta e la più alta attenzione a cui educa la liturgia di Rosh hashanà, e in particolare il suono dello shofar: la sua curvatura fisica e sonora rimanda anche alla curvatura spazio-temporale di einsteiniana memoria: la circolarità dell’universo come riflesso della circolarità dei ritmi naturali e delle esistenze viventi, le quali, tuttavia, non si perdono in un insignificante pulviscolo cosmico ma vengono riscattate dalla nostra consapevolezza della rarità, preziosità e bellezza della vita stessa, in tutte le sue forme.
Shanà tovà u-metuqà, che sia un anno buono e dolce per tutti!
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma