La storia, la tradizione e le ricette di un frutto che accompagna da sempre il menu del Capodanno ebraico
Non esistono quasi simbolismi negativi associati al fico. E di immagini legate a questo frutto e alla sua pianta la letteratura, religiosa e non solo, è davvero zeppa. Pare che nella Bibbia e il Talmud l’unico frutto ad avere un numero maggiore di citazioni sia l’uva. Il che, considerato il periodo in cui entrambi giungono a maturazione, conferma questo momento come uno dei più densi di significati di tutto l’anno. Non a caso, Rosh Hashnanh è alle porte e proprio i frutti citati sono, insieme alla mela e al melograno, immancabili nel Seder della festa.
Tornando a concentrarci sul fico, questo dono della natura, dolce e carnoso, ha riscosso un gran successo fin dalla sua comparsa sulla terra. E si parla di tempi infinitamente remoti. Secondo gli storici, si tratterrebbe addirittura della prima specie vegetale che è stata portata dallo stato selvatico a quello coltivato. La scoperta è avvenuta una quindicina di anni fa in un antico villaggio del Neolitico, indicato come Gilgal I, nella bassa valle del Giordano. Gli antropologi e archeologi Ofer Bar-Yosef della Harvard University e Mordechai E. Kislev e Anat Hartmann della Bar-Ilan University hanno ritrovato i resti carbonizzati di nove piccoli fichi e di centinaia di drupe risalenti a circa 11.400 anni fa. Secondo i ricercatori, si tratterebbe di frutti di una varietà domestica precoce, presumibilmente autoimpollinante, non troppo diversa da quelle che ancora oggi coltiviamo. Il ritrovamento farebbe quindi del fico la prima coltura domestica riconosciuta, cinquemila anni prima di quanto si pensasse e mille anni in anticipo rispetto a grano, orzo e legumi.
Sulla presenza invece di questo sinuoso albero a livello selvatico è impossibile stabilire delle date, ma quello che si suppone è che sia originario dell’Asia Minore e che i popoli nomadi lo abbiano involontariamente portato nel bacino del Mediterraneo, disperdendone i semi nel corso delle loro migrazioni. Di sicuro, bisognoso com’è unicamente di sole e con pochissime esigenze di irrigazione, questo albero non poteva che trovare in Israele il suo habitat privilegiato, tanto da essere assimilato al “pomo” per eccellenza.
A questo proposito, la teoria più in voga tra i commentatori biblici ebrei vuole che fosse un fico, e non un melo, l’albero della conoscenza dal quale Adamo ed Eva non avrebbero dovuto mangiare. A dirla tutta, in Genesi 2.17, dove se ne fa riferimento, non si parla propriamente neppure di un frutto, ma solo di una pianta. Il fatto però che in Genesi 3.7 si racconti che la coppia di disobbedienti abbia coperto le nudità con le foglie di un fico, secondo il Talmud sarebbe la prova che si trattasse dello stesso albero da cui i due avevano tratto la colpa.
Lungi dal trasformare il fico in un elemento negativo, l’episodio biblico ha dato il via a una serie lunghissima di citazioni lusinghiere. Oltre al Libro dei Giubilei 13.6, dove si legge: “Ed egli guardò ed ecco che era una terra buona e spaziosa e molto ricca e ogni cosa fioriva in essa, vino e fichi e melograni”, un altro dei riferimenti più noti al fico è quello fatto nel Deuteronomio 8.8. Qui la Terra d’Israele è descritta come “una terra di grano, e orzo, e viti, e fichi e melograni; una terra d’ulivi e di miele”, testimoniando tra l’altro come nei tempi biblici questi vegetali fossero gli alimenti base più apprezzati e ambiti dal popolo ebraico.
La loro santità imponeva una benedizione dopo averli consumati e li rendeva offerta privilegiata al Tempio di Gerusalemme in occasione di Shavuot. Al fico, in particolare, secondo il rabbino cabalista Isaac Luria sarebbe associata la virtù spirituale della resistenza (netzach), che genera longevità. Con una vita media produttiva di circa 50 anni, il fico rifletterebbe la fecondità eterna anche per i lunghi tempi di maturazione (circa tre mesi) e la lunghezza del suo tempo di raccolta, che segna l’inizio dell’estate con i precoci e la fine della stagione (nonché dell’anno ebraico) con i tardivi.
Sempre legato alla durata è anche il Midrash che racconta di un centenario incontrato dall’Imperatore Adriano. Alla domanda sul perché alla sua età stesse piantando fichi e se sperasse davvero di poterne mangiare i frutti, il vecchio avrebbe risposto che se questo fosse avvenuto se ne sarebbe rallegrato e lodato il Signore. In caso contrario, avrebbe comunque lavorato per i suoi figli così come i padri avevano fatto per lui. Tra anni dopo, di ritorno sulla stessa strada dalla guerra, l’Imperatore avrebbe di nuovo trovato l’uomo, questa volta intento a raccogliere i fichi e a ringraziare Dio di avergli concesso di poterlo fare. In tutta risposta, Adriano avrebbe chiesto ai suoi servi di sostituire i frutti del vecchio con pezzi d’oro.
Dal canto suo, il Malbin, commentatore biblico russo dell’Ottocento, consiglia di osservare molto attentamente il fico e di raccogliere i suoi frutti giorno per giorno, poiché maturano uno dopo l’altro. Allo stesso modo, anche i maestri andrebbero osservati quotidianamente in modo da raccogliere i frutti della loro saggezza. Nel Midrash Bamidbar Rabbah si legge anche: “Perché la Torah è paragonata ad un fico? La ragione è che la maggior parte degli alberi da frutto, l’ulivo, la vite e il dattero, vengono raccolti tutti insieme, mentre il fico viene raccolto poco a poco”.
La tradizione rabbinica trabocca comunque di riferimenti al fico, paragonato perlopiù alla parola divina e alle Scritture. In Yalkut Shimoni Yehoshua 4.2 si esalta il fatto che, a differenza di altri frutti che presentano noccioli come i datteri o vinaccioli come l’uva, il fico non abbia scarti, ma sia interamente buono da mangiare: “Tutte le parti del fico sono commestibili, poiché tutte le parti della Torah sono preziose”. Nella Bibbia la Legge è paragonata a un fico, perché si riesce sempre a trovare un frutto tra le sue foglie.
A proposito di fogliame, quello del fico è talmente ricco e rigoglioso ad avere fornito non solo il primo abito per Adamo ed Eva, ma anche un riparo ideale dal sole cocente e, per estensione, una immagine di pace e di protezione. Non a caso, l’espressione biblica “ognuno siederà sotto la sua vite e il suo fico” (Michea 4.4) fu citata da George Washington nella sua lettera del 1790 alla Sinagoga di Touro per simboleggiare l’uguaglianza di tutti gli americani. Dal canto suo, Theodor Herzl evoca a sua volta la vite e il fico (che non a caso crescono affiancati, quando non avvinghiati l’una all’altro) quando collega il suo sogno di una patria ebraica al passo 4.25 dei Re: “Giuda e Israele abitarono al sicuro, ognuno sotto la sua vite e sotto il suo fico, da Dan fino a Bersabea, per tutti i giorni di Salomone”.
Nei rari casi in cui il fico è associato a un’immagine negativa (al netto di quella ambigua di frutto proibito), è solo per contrapporla a una positiva, rappresentata dallo stesso frutto al meglio del suo sviluppo e conservazione. A questo riguardo, un intero capitolo di Geremia usa il fico come metafora per discriminare il bene dal male, non però in quanto frutto dell’albero della conoscenza, ma come distinzione tra buoni e cattivi: “Il Signore mi mostrò, ed ecco, due ceste di fichi erano davanti al tempio del Signore (…). Un cesto aveva fichi molto buoni, come i fichi che sono maturi per la prima volta; l’altro cesto aveva fichi molto cattivi che non si potevano mangiare (…)”.
Fuor di metafora, oggi come allora i fichi più apprezzati sono quelli del raccolto di fine estate e inizio autunno, i tardivi che maturano tra agosto e settembre. Per valutarne la bontà non vale molto affidarsi a colore e dimensioni, che al pari dell’aspetto bello e liscio potrebbero trarre in inganno. Paradossalmente, infatti, sono spesso i frutti con meno imperfezioni a risultare poi secchi e insipidi. Per mangiarli al meglio, andrebbero intanto lasciati maturare sull’albero fino a quando si mostrano morbidi e con il picciolo leggermente incurvato. Alcune varietà regalano anche una irresistibile goccia di sciroppo che fuoriesce dalla fessura alla base, mentre la pelle degli esemplari più gustosi tende a essere un po’ screpolata. Da questo punto in poi, però, i tempi si fanno serratissimi, perché il consumo deve avvenire entro pochi giorni se non ore, onde evitare che diventino acidi.
Apprezzati fin dall’antichità come fonte di salute oltre che di nutrimento (e di allegorie), i fichi presentano, tra le tante, doti mineralizzanti confermate dagli studi moderni. In particolare, sono ricchi di potassio, calcio e ferro, affiancati a buone quantità di vitamina B, di fitosteroli e di fibre, garanzia di benessere riconosciuta dai tempi più remoti. Possono essere consumati così come sono, ben maturi e al naturale, conservati per essicazione quando sono raccolti leggermente più sodi o trasformati in confetture e liquori. In epoca biblica, la polpa spremuta e bollita di quelli troppo maturi veniva trasformata in uno sciroppo che in alcuni casi poteva sostituire il miele, mentre l’acquavite di fichi viene talvolta usata al posto del vino per recitare il Kiddush del sabato presso gli ebrei del Maghreb.
I frutti più dolci e zuccherini, in genere della varietà nera, sono perfetti da consumare così come sono, eventualmente tagliati in quarti e aperti come un fiore, freddi o riscaldati al forno, facendovi colare al centro un filo di miele. Così preparati, saranno la portata perfetta per aprire il pranzo di Rosh Hashanah, assaporandoli lentamente e immaginando che l’anno che si apre sia altrettanto ricco di dolcezza.
Fichi caramellati al rum
Ingredienti
6 fichi verdi o neri
1 limone non trattato
5 cucchiai di rum
100 g di zucchero
Sbucciare i fichi con molta delicatezza, cercando di non intaccarne la polpa. Mescolare lo zucchero in un pentolino con 6 cucchiai di acqua, aggiungere la scorza grattugiata del limone e una spruzzata del suo succo.
Scaldare il composto a fiamma bassa mescolando per circa 5 minuti, fino a quando lo zucchero si sarà sciolto formando uno sciroppo. Unire quindi i fichi e cuocerli sempre a fuoco lento per pochi altri minuti, rigirandoli con delicatezza, fino a quando saranno ammorbiditi.
Aggiungere il rum, mescolare ancora delicatamente, poi togliere dal fuoco e lasciare riposare e raffreddare prima di servire i fichi caramellati.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.