Viaggio storico e meraviglioso a partire dalla preziosa Haggadah che dalla Spagna arrivò nella Bosnia Erzegovina
La costituzione della Bosnia Erzegovina non contempla gli ebrei tra i popoli costitutivi. Eppure, è anche seguendo le traversie di un tesoro di questa ormai piccola comunità, l’Haggadah di Sarajevo, che si possono comprendere quelle di questa terra difficile.
Realizzato a Barcellona intorno al 1350, questo prezioso testo sarebbe giunto nella capitale bosniaca nel 1894. Composta da 142 fogli di sottilissima pelle di vitello, sbiancata e dipinta a mano con 69 preziose miniature, l’Haggadah sarebbe sopravvissuta per miracolo (il primo di una lunga serie) al Decreto di Alhambra del 1492. Lasciata la Spagna insieme a tutti gli ebrei cacciati dai sovrani iberici, il codice passò dal Nord Italia, e in particolare a Venezia, nel 1609 per poi ricomparire nel 1894, in pieno periodo austro-ungarico, in quel di Sarajevo. Qui, fu acquistato dal Museo Nazionale della Bosnia Erzegovina dalla famiglia di Josef Kohen. Superata indenne la Prima Guerra Mondiale, si trovò nella Seconda a essere assai ambito dai nazisti, che rimasero però a bocca asciutta. Infatti, quando nel 1942 il generale tedesco Johann Fortner chiese al direttore della biblioteca di consegnargli il manoscritto, Dervis Korkut gli mentì sostenendo di averlo già consegnato a un suo collega ufficiale.
Dichiarato con la moglie Giusto tra le Nazioni presso lo Yad Vashem Holocaust Memorial di Gerusalemme per aver salvato una ragazza ebrea nascondendola per sei mesi in casa propria, il bibliotecario aveva provveduto a mettere in salvo anche il prezioso testo. Contrariamente a quanto dichiarato al nazista, lo aveva portato fuori città, pare in un villaggio musulmano ai piedi del monte Bjelašnica, dove lo avrebbe lasciato fino alla fine del conflitto.
L’Haggadah sarebbe passata indenne anche alla guerra che devastò il paese tra il 1992 e il 1995. A metterla in salvo, questa volta, il direttore del Museo Nazionale Emir Imaovic, che con un gruppo di poliziotti riuscì a prelevare il manoscritto. Negli stessi anni ci fu pure chi accusò il governo di Sarajevo di aver venduto il testo per acquistare armi, ma la sua esposizione ufficiale al pubblico nel 1995, ripresa anche dalla rete americana ABC, avrebbe fugato ogni sospetto.
Oggi il manoscritto è la punta di diamante della collezione del Museo Nazionale della Bosnia Ezegovina, struttura che a sua volta non ha avuto certo vita facile. Progettato nel 1850 e inaugurato nel 1888 in Zmaja od Bosne 3, questo palazzo dalla massiccia struttura e la facciata neorinascimentale ha rischiato di scomparire come istituzione nel 2012, quando fu chiuso per mancanza di fondi a seguito degli impietosi tagli fatti dal governo alla cultura. Riaperto nel 2015, oggi è fortunatamente visitabile, con le sue brave sezioni di scienze naturali, archeologia, etnologia e, soprattutto, il prezioso codice miniato.
Sempre seguendo le pagine dei libri, si può ricostruire la storia dell’ormai piccolissima comunità ebraica di Sarajevo, ridotta a circa 700 anime, se non meno. Trasferendosi nell’ex quartiere israelita, si accede al Museo Ebraico della Bosnia ed Erzegovina, ospitato in quella che era stata la prima sinagoga della Bosnia, in Velika avlija Laure Papo Bahorete. Nelle sue sale si possono ammirare i testi di una preziosa collezione che comprende libri scritti in ladino e in ebraico, alcuni risalenti a tre secoli fa. Altri oggetti, opere e documenti testimoniano la lunghissima storia degli ebrei a Sarajevo, giunti in città via Salonicco già nel 1541 (e forse anche prima), con la benedizione dello stesso governo ottomano, che ne favorì l’insediamento in Bosnia.
Perlopiù artigiani, commercianti, farmacisti e medici, i primi sefarditi giunsero qui tra gli anni 70 e 80 del Cinquecento nei pressi del bazar della città vecchia, nel quartiere denominato El Cortijo (il cortile) delimitato dalle strade Ferhadija, Mustafa Mula Beseckija, Gazi Husrev Begova e Jelice. Con l’aiuto del gran visir Syavush Pasha e su richiesta, pare, della popolazione locale (che voleva la separazione dei nuovi arrivati senza arrivare però all’istituzione di un ghetto), furono fatti costruire alloggi comunitari con quarantasei camere destinate ai più bisognosi, un cortile e una sinagoga.
Consacrata nel 1581, la Velika Avlija (Vecchia Sinagoga) finì bruciata insieme al resto del quartiere in un incendio nel 1697, quando gli austriaci occuparono la città, per poi essere ristrutturata e poi ancora incendiata nel 1778. Di nuovo risorto, il luogo di culto fu trasformato in Museo Ebraico nel 1965 con la gestione dal Comune, pur restando di proprietà della comunità locale. Chiuso durante la guerra del 1992 per fare da deposito ad altri musei della città, fu riaperto solo nel 2004. Oggi l’antica Velika Avlija è l’unica superstite, con quella Ashkenazita e Il Kal di la Bilava (un tempo sefardita, oggi adibita ad abitazioni), delle quindici sinagoghe attive in città prima della Shoah, quando i circa 12mila ebrei di Sarajevo costituivano il 20 per cento della popolazione complessiva. Nella grande sala a tre navate al piano terra dell’antico tempio si tengono ancora i servizi in occasioni speciali, ma il luogo ospita perlopiù mostre di oggetti rituali e tradizionali. Ai piani superiori, costituiti da balconi ad arco in pietra posti intorno all’area del santuario, si possono ammirare altri reperti storici che testimoniano la ricchezza della tradizione ebraica nei secoli passati e il contributo della comunità allo sviluppo della cultura in Bosnia Erzegovina, in particolare nelle scienze e nelle arti.
Una parte del museo mostra quanto fosse ricca la vita ebraica prima della Shoah, mentre una sezione descrive in dettaglio il funzionamento della comunità durante la guerra in Bosnia. In quel tragico frangente, l’organizzazione di assistenza sociale La Benevolencija (tuttora operativa) ottenne fama internazionale per gli aiuti umanitari offerti all’intera città. Indipendentemente dall’appartenenza etnica o religiosa, l’ente mise a disposizione dei più bisognosi una mensa popolare, una farmacia e una rete di convogli che consentivano ai feriti di uscire dalla capitale.
Accanto alla Vecchia Sinagoga si trova l’edificio indicato come Tempio Nuovo, Il Kal Muevu. Edificato nel 1821, quando la comunità ebraica di Sarajevo stava vivendo uno dei suoi momenti di maggiore fortuna, l’ormai ex sinagoga è ancora di proprietà della comunità ebraica e ospita mostre d’arte e di fotografia.
Sempre di culto sefardita come quelle appena viste era anche Il Kal Grande, la Grande Sinagoga costruita in stile neomoresco nel 1930 su progetto dell’architetto croato Rudolf Lubinski, tra i più importanti rappresentanti dell’Art Nouveau. Considerata la più grande e spettacolare dei Balcani, con una capienza per duemila fedeli, testimoniava la posizione assunta dagli ebrei di Sarajevo, ai tempi nota come la piccola Gerusalemme, importante crocevia per la vita ebraica nei Balcani. Molti appartenenti alla comunità erano professionisti, in particolare medici, e possedevano diverse proprietà nel centro cittadino, tra cui eleganti palazzi e negozi lungo le vie principali, in particolare sull’antica Ćemaluša, oggi Maršala Tita.
Il Kal Grande fu devastata dai tedeschi, che ne distrussero gli interni e annientarono, tra gli altri, 400 anni di archivi della comunità. Ceduta alla città dai sopravvissuti dello sterminio nazista, l’ormai ex luogo di culto fu ristrutturato tristemente nel 1965, con la sostituzione, tra l’altro, della maestosa cupola ellittica con un tetto piatto. Oggi è la sede del Centro Culturale Bosniaco, in Branilaca Sarajeva 24.
Quello che resta dell’attività comunitaria, insieme alle funzioni religiose, è stato trasferito fin dagli anni Sessanta presso la già citata Sinagoga Ashkenazita, in Hamdije Kreševljakovića 59. Unico tempio ancora propriamente in funzione a Sarajevo, questo imponente palazzo fu costruito nel 1902 dalla comunità ashkenazita, presente in città fin dal Seicento e in maniera massiccia dalla fine dell’Ottocento. La maestosa costruzione dalle imponenti quattro torri angolari sorge sulla sponda meridionale della Miljacka, il fiume che attraversa la capitale bosniaca. Dall’architettura neo moresca, stile molto diffuso nella Sarajevo di inizio secolo e in generale nelle sinagoghe dell’Impero, merita una visita soprattutto per le sale al primo piano, dalle pareti e il soffitto decorati da affreschi e motivi geometrici di grande bellezza.
Tra i luoghi che testimoniano l’importante passato ebraico della città, il cimitero di Kovačići è una tappa imperdibile anche per ragioni squisitamente paesaggistiche. Posto appena fuori dalla capitale, nella zona a Sud Ovest, il maestoso per quanto decadente luogo di sepoltura domina la città dall’alto, alle pendici del monte Trebevici. Secondo per antichità e grandezza solo a quello di Praga (almeno in Europa sud orientale), il cimitero ebraico è stato fondato ufficialmente nel 1630, quando cioè Samuel Baruh, primo rabbino di Sarajevo, qui sepolto, affittò il terreno per seppellirvi i membri della congregazione sefardita (in seguito il luogo avrebbe accolto anche gli ashkenaziti).
Esteso su una superficie di circa 3 ettari, è circondato da un muro e presenta un grande portale a tre archi in pietra bianca, suo ingresso principale. Tra le sue oltre 3.850 lapidi, perlopiù simili tra loro per forma e dimensione, spiccano quelle dei rabbini e degli studiosi, più grandi o sontuose, con iscrizioni in ebraico per le più antiche, in ladino e, per le più recenti, in serbo-croato. Rimasto operativo fino al 1966, come tanti altri luoghi simbolo della città è una cupa testimonianza dei conflitti che hanno segnato la storia di questo territorio e del suo popolo. In prima linea nella guerra degli anni Novanta, fu sfruttato come postazione di artiglieria dai serbi bosniaci, con i cecchini che per nascondersi usavano le lapidi, tuttora crivellate dai proiettili, e le tombe, trasformate in trincee. Pesantemente minato, è stato completamente bonificato nel 1996 da una organizzazione privata norvegese.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.