La caduta del Muro del regime che fu di Walter Ulbricht ed Erich Honecker, dopo il 1989, ha scoperchiato i sepolcri imbiancati. Ecco perché…
Quando i muri cadono, oltre ad aprire nuovi orizzonti, o comunque a garantire varchi altrimenti insperati, rischiano spesso di precipitare sulla testa di qualcuno. Anche a distanza di tempo dal loro sbrecciarsi e poi scomporsi. A rigore di metafora, sono i mattoni (o le pietre) dei quali si compongono a non venire meno, ovvero a cadere sulle persone. Come esiste una retorica della perimetrazione (il muro ci separa da quanto ci minaccia), c’è anche una speculare illusorietà nel discorso di senso comune che rimanda alla liberazione attraverso i “ponti”, il quale invece assai raramente considera l’onere dell’attraversamento, ossia il confronto tra identità e interessi diversi, spesso destinati ad essere giocati nello stesso spazio e quindi a creare frizioni.
Non lo diciamo per spirito polemico ma per introdurre, all’interno di una cornice analitica, alcuni elementi di riflessione sulle trasformazioni avvenute in trent’anni nel corpo dell’Europa continentale e soprattutto in quella parte di essa, la Germania orientale, che si confronta di nuovo con i fantasmi di un passato che non passa. Ovvero, che ritorna, anche se in modi diversi da quelli trascorsi. Non malgrado il tempo nel mentre consumatosi ma – piuttosto – grazie ad esso.
La rigenerazione dei motivi ipernazionalistici che furono, tra gli altri, all’origine prima del fascismo e poi del nazionalsocialismo è infatti un dato che va preso in considerazione. Non si tratta di fasciarsi la testa ma di capire cosa stia avvenendo, cercando in qualche modo di non leggere con le lenti deformanti un’evoluzione che si presenta comunque come problematica per le democrazie. A pesare e a dovere indurre in preoccupazioni, infatti, non è tanto la rinnovata forza di alcuni movimenti e partiti radicali quanto la crescente debolezza delle istituzioni democratiche federali come di quelle europee. Le due cose, peraltro, non sono per nulla slegate, alimentandosi vicendevolmente. Nel caso dei Länder dell’Est, già suddivisi in quattordici distretti amministrativi, questo dato è particolarmente pronunciato. Su queste pagine si è ripetutamente parlato dell’antisemitismo in Europa. Quantificare la sua persistenza e il suo adattarsi camaleonticamente alle trasformazioni in corso non è agevole. I numeri sono sempre molto discutibili, ossia possono essere interpretati in modi anche diversi. Tuttavia forniscono una linea di tendenza piuttosto chiara.
Se l’incremento di episodi di avversione è un dato di fatto, manifestandosi in violenze e vandalismi contro cose, oppure in atti di avversione, provocazioni ed espressioni razziste, il passaggio alle vie di fatto, come nella tentata strage di Halle, in Sassonia-Anhalt, così come il più recente pronunciamento del consiglio comunale di Dresda (citta nella quale è nato nel 2014 il movimento Pegida, acronimo di Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes, «Europei patrioti contro l’islamizzazione dell’Occidente»), che ha proclamato l’esistenza di un’«emergenza nazismo», insieme ai risultati elettorali comunali e regionali, spesso favorevoli alle formazioni di destra radicale, sono tutti indici significativi di una più generale tendenza in atto. Ad Halle, per rimanere in tema, così come in altre città della Germania orientale, tra le quali Chemnitz e Köthen, già durante le trascorse manifestazioni del Primo maggio si erano verificati violenti scontri a causa delle provocazioni di diversi gruppi del radicalismo di destra. Sempre nella cittadina tedesca si tengono, con angosciante ritualità, incontri pubblici (meglio conosciuti come le «manifestazioni del lunedì»), nel corso dei quali i partecipanti rivendicano la rilettura in chiave neonazionalista del passato tedesco.
L’accusa rivolta alle autorità federali di avere accettato passivamente una “colpa” che non apparterrebbe alla Germania, quella dello sterminio degli ebrei – di cui alcuni contestano la stessa autenticità storica, mentre molti altri, con maggiore prudenza, mettono in discussione la sua rilevanza rispetto alla coscienza collettiva in quanto prodotto da imputarsi alle circostanze belliche e non ad una deliberata volontà criminale – fa da collante all’identitarismo etnico di cui l’intera destra radicale si alimenta costantemente. È interessante notare che le iniziative di una parte dei movimenti estremisti siano state supportate nel tempo dalle posizioni teoriche di due trascorsi esponenti della sinistra: il primo già membro dell’implacabile organizzazione del terrorismo rosso Rote Armee Fraktion («Frazione dell’armata rossa»), che tra il 1970 e il 1993, sia pure con un impatto decrescente nel corso del tempo, aveva insanguinato la Germania; l’altro, esponente del marxismo, poi transitato nel corservatorismo più acceso ed esasperato. Horst Mahler e Günter Rohrmoser, questi i loro nomi, hanno dato forma e corpo dalla seconda metà degli anni Novanta in poi ad una narrativa pubblica che identifica nei tedeschi le vere vittime della Seconda guerra mondiale, il cui scatenamento, ancora una volta, viene imputato agli ebrei.
Le «manifestazioni del lunedì», che hanno oramai una lunga tradizione di incontri alle spalle, con un numero di partecipanti oscillante tra le poche decine ed alcune centinaia, sono patrocinate e organizzate da gruppi che si rifanno al movimento Für Unser Land («Per la nostra terra»), la cui radice è dichiaratamente xenofobica, postulando l’invasione di popoli stranieri, a partire dalla presenza musulmana, come la vera minaccia alla quale il paese è sottoposto. Non si tratterebbe, quindi, solo della competizione in campo economico e professionale ma della contaminazione dell’”etnia” autoctona, che causerebbe una decadenza generalizzata.
Nel 2003 l’attenzione del movimento si è spostata sulla Shoah, avendo ad obiettivo tutte le iniziative memorialistiche che il governo di Berlino, e quelli degli Stati tedeschi federati, nel mentre andavano realizzando. Un inacidito ed istrionico Mahler, transitato definitivamente dalla sinistra radicale alla destra estrema, si è fatto anche portabandiera delle istanze negazioniste – una tentazione troppo forte per resisterle – fino ad arrivare a domandare asilo all’Ungheria di Victor Orbán dopo essere stato colpito recentemente da un mandato di cattura. Nel novembre del 2003 aveva già fondato Verein zur Rehabilitierung der wegen Bestreitens des Holocaust Verfolgten la «Lega per la riabilitazione dei perseguitati a causa della contestazione dell’Olocausto», successivamente vietata, nel 2008, per incostituzionalità. La Lega ha fatto da serbatoio e luogo di raccolta per numerosi negazionisti dello sterminio. Il medesimo personaggio, già da tempo esprimeva comunque posizioni dichiaratamente antisemite. Vale forse la pena di ricordare che suo padre, ai tempi del regime, era stato un convinto seguace del nazionalsocialismo. Il giovane Horst era quindi cresciuto in una famiglia rigidamente anticomunista, anche se aveva poi aderito alle istituzioni della Repubblica democratica tedesca e successivamente alla socialdemocrazia, dopo che la famiglia era espatriata ad Ovest.
La pubblicazione nel 2000 di un volumetto intitolato Ausrufung des Aufstandes der Anständigen, ovvero «Proclamazione della rivolta dei decorosi» (nel quale si chiedeva provocatoriamente di arrivare all’esclusione degli ebrei dalla Germania, di espellere senza tanti complimenti i richiedenti asilo e gli immigrati privi di lavoro), sanciva un tema che da allora in poi – i neonazisti tedeschi in maniera aperta, il resto della destra radicale in misura più soffusa – è stato portato avanti e promosso con il fragore della grancassa: il nesso diretto tra immigrazione islamica ed araba, da un lato, e presenza degli ebrei dall’altro. I secondi, secondo questa “dottrina”, sarebbero gli artefici della prima; eliminando gli uni e gli altri dalla scena politica (e sociale) nazionale si sarebbe quindi garantito «un sistema immunitario spirituale intatto». Soffermarsi, anche solo di poco su Horst Mahler, propugnatore tra le altre cose della costituzione di un Quarto Reich, che avrebbe rimesso in moto la storia tedesca fermatasi nei primi giorni di maggio del 1945, con la resa incondizionata della Wehrmacht, l’esercito tedesco, aiuta a comprendere quale sia stato il brodo di coltura della nuova destra radicale in Germania in questi ultimi due decenni.
La quale si è dovuta confrontare con le interdizioni legali sancite dalla Costituzione, ovvero la Grundgesetz, Legge fondamentale della Repubblica federale di Germania, all’interno della quale la Corte costituzionale dichiarò negli anni Cinquanta fuorilegge quei movimenti politici considerati antisistema, ossia il neonazista Partito socialista del Reich e quello comunista. La navigazione delle formazioni e delle organizzazioni della destra illiberale da allora si dovette sempre confrontare con i molti vincoli giuridici, prima ancora che politici, di cui la Germania occidentale si andò dotando a tutela della sua stabilità istituzionale. Fatto, tuttavia, che nel mentre vietava manifestazioni apologetiche nei confronti del nazismo non garantiva per nulla che al silenzio pubblico corrispondesse un pari consenso privato. L’associazionismo dei profughi tedeschi e Volksdeutschen (i «tedeschi del popolo», nati fuori dai confini nazionali ma di etnia germanica), espulsi dall’Europa orientale tra il 1944 e il 1945, con l’avanzata delle truppe sovietiche, a lungo ha costituito un terreno di incubazione degli estremismi, anche se alla loro devitalizzazione si impegnò la Cdu-Csu, la Democrazia cristiana tedesca così come la Spd, il partito socialdemocratico.
Nella Repubblica democratica tedesca, paese a «socialismo reale», l’antifascismo fu incorporato nell’ideologia di Stato. Di esso, presentato come ideologia che costituiva la naturale prosecuzione della politica del partito comunista della Repubblica di Weimar – ed ora in quanto espressione del “carattere” profondo di una Neues Deutschland – si diceva che era una delle ossature del socialismo collettivista tedesco. Alla gemella Repubblica federale tedesca veniva invece imputata la connivenza con il «fascismo capitalistico». La caduta del regime che fu di Walter Ulbricht ed Erich Honecker, dopo il 1989, ha quindi scoperchiato i sepolcri imbiancati, rivelando la disarmante pochezza di una tale menzogna. Non è un caso, infatti, se è proprio nei Länder orientali che la reviviscenza del neonazismo si sia fatta più corposa e manifesta.
Non solo, evidentemente, come reazione ai cascami, alle vestigia, alle ingombranti macerie del regime comunista ma anche come segno del disagio diffuso tra i cittadini di quelle regioni, svantaggiati rispetto ai connazionali occidentali. Se il nazionalsocialismo storico germinò in Baviera, il neonazismo ha avuto più padri, così come molteplici progeniture, ma ha senz’altro originato una filiazione che trova tra la Sassonia, il Brandeburgo, il Meclemburgo e la Turingia un solido ancoraggio. Un peso fondamentale in queste dinamiche, oltre ai concreti dati di fatto dell’oggi, è da ascrivere alla scarsa o nulla educazione ad un sistema di relazioni politiche e civili di natura pluralista.
Il lascito dell’autoritarismo comunista è stato tale da segnare anche coloro che sono nati durante e immediatamente dopo il crollo del sistema bipolare. Dopo di che, va riconosciuto che in realtà i colpi contro la Germania liberaldemocratica – quella costituita dal sistema politico centrista, al cui assalto la destra radicale vorrebbe ora andare, circuendone l’elettorato – sono rivolti anche e soprattutto all’Unione Europea. La dottrina del radicalismo di destra tedesco somma una serie di elementi che confluiscono nel denunciare il processo di integrazione continentale non solo come costruzione fittizia ed artificiale ma anche nella sua presunta natura di strumento di una calcolata e voluta decadenza dei popoli nativi, le «nazioni europee». Il ritorno dell’etnicismo è, da un tale punto di vista, strategico, soprattutto in un paese che ospita un grande numero di stranieri e continua ad essere, insieme agli Stati Uniti e alla Russia, una delle mete preferite dai migranti. L’etnicismo blut und boden, di «sangue e suolo», di stirpe e di terra, di spirito e di corpo, nella sua agorafobica necessità di presentarsi come strumento d’ordine naturale, di ripristino delle gerarchie altrimenti sovvertite, abbisogna sempre e comunque di un suo alter ego negativo. Il quale è costituito dall’ebraismo immaginario, finzionale, a cui si rimanda con una coerenza maniacale, che è pari solo alla necessità di definirsi in opposizione ad un ipotetico ma strenuo “nemico”. Ancora una volta ritorna un fantasma che è costitutivo dell’identità radicale (non solo di destra estrema ma anche del jihadismo e del salafismo): quello della contrapposizione tra natura (immodificabile) e società (manipolabile); tra cultura (intesa come dimensione antropologica, non come insieme di saperi mutevoli) e civilizzazione (vissuta come contaminazione e ibridazione); tra spirito (elevato) e materia (grezza se non abominevole). Gli ebrei, in queste immaginarie coppie oppositive, occupano sempre la parte peggiore, poiché sono gli esseri che in fantasia incorporano quel proposito complottistico per il quale tutto possa e debba essere alterato, manipolato, comunque trasformato a proprio beneficio.
Gli ebrei sono gli agenti della “sovversione” dell’ordine costituito, non quello delle istituzioni costituzionali (anch’esse prodotto dell’artificiosità del moderno) bensì della vera natura profonda, quella etnorazziale. Nei modelli a tratti psicoanalitici, mentre il radicalismo, e con esso il neonazismo, si riconoscono in una visione di sé fusionale, dove tutto coincide in una sorta di unione mistica, l’ebraismo assume il sembiante di un insieme di parti confusionali, il cui obiettivo, per continuare ad esistere e a produrre il proprio dominio sui non ebrei, è quello di scompaginare l’ordine altrui. L’effervescenza della destra estrema, dopo la caduta del Muro di Berlino, va comunque inquadrata all’interno della crisi più generale del progetto europeo. Non è un problema della sola Germania (dove pure la populistica Alternative für Deutschland- AfD raggiunge in Sassonia il 27,8% dei consensi, il 23,1% in Brandeburgo, il 23,4% in Turingia) ma dell’intero Continente. Il deficit dell’Unione Europea si misura su più piani, ma si alimenta anche di un vuoto di cognizione storica che nessun riferimento alla «memoria» può colmare. È il vuoto decretato dall’incapacità di assumere e risolvere ciò che resta della cosiddetta «questione ebraica», per come è stata tematizzata dagli antisemiti di sempre, all’interno di una eredità comune. In altre parole, ogni paese è stato chiamato a confrontarsi da sé con le pesanti eredità di un Novecento di conflitti e di guerre di sterminio, «conservando e alimentando memorie nazionali distinte della persecuzione degli ebrei in ogni paese Ue. Si è dunque avviato un cortocircuito in cui ogni comunità nazionale ha cercato di scaricare le colpe più pesanti del proprio passato antisemita sui paesi limitrofi, che è sfociata nella legge sulla negazione della complicità polacca nei campi di sterminio (2018), poi parzialmente abrogata su pressione di Israele.
Non è un caso che dai paesi dell’Europa dell’Est, inclusa la zona della vecchia DDR tedesca, provengano maggiori pressioni verso un revisionismo storico che prescinde dalla crisi economica, ma che attinge le proprie radici nella ricostruzione di un’identità nazionale fortemente comunitaria ed esclusivista con cui l’adesione alla pluralistica e liberale Unione Europea non si pone necessariamente in contraddizione» (così Claudia De Martino, sul Fatto quotidiano dell’11 ottobre 2019, rispetto all’attentato di Halle). Se i muri cadono a destra, allora, pietre e mattoni finiscono puntualmente sulle teste di quelle collettività che, cercando la liberazione, ritengono invece di avere trovato nuove forme di servitù e dipendenza.
Analisi molto lucida delle dinamiche in atto nella società tedesca e delle sue connessioni con la crisi sociale e d’identità dell’Europa. Grazie Claudio