Finito di stampare il 3 aprile 1982, è un libro sull’identità, un dialogo tra la cultura ebraica del mondo yiddish e quella italiana
Sono passati quarant’anni dalla pubblicazione di Se non ora, quando?. Finito di stampare il 3 aprile 1982, l’unico vero romanzo di Primo Levi raggiungeva le librerie nei giorni successivi, conquistava le classifiche di vendita, vinceva i premi Viareggio e Campiello e per la fine dell’anno toccava quota 110.000 copie. Con Se non ora, quando? e il successo del Sistema periodico negli Stati Uniti, di poco posteriore, Primo Levi, pur rimanendo per tutti il testimone di Auschwitz, diventava anche un abile narratore in grado di inventare e costringere il lettore a fare le ore piccole, la sera, per seguire le vicende di personaggi di fantasia. D’altro canto oggi, con un panorama di studi vorticoso che permette di considerare il chimico scrittore tra i principali protagonisti del Novecento letterario italiano, Se non ora, quando? viene quasi sempre considerato dalla critica un libro minore. Detto in altre parole, la straordinaria fortuna postuma di Levi non è dovuta tanto a questo romanzo, quanto a Se questo è un uomo, La tregua, Il sistema periodico, La chiave a stella e in modo forse ancora più decisivo I sommersi e i salvati.
“Chiamatelo romanzo”. È lo stesso Levi a dirlo: “L’idea è stata mia. A domanda di Einaudi sul come presentarlo, ho risposto: ‘Chiamatelo romanzo’. Credo sia legittimo”. In un’altra intervista lo definisce “una storia di avventure, un western”, e all’esperienza di scrittura del libro dedica un articolo, intitolato appunto Scrivere un romanzo, che esce su La Stampa e viene poi raccolto nel volume L’altrui mestiere. Il progetto lo affascina al punto da fargli interrompere una serie di saggi sul Lager a tanti anni di distanza dalla prigionia che saranno la base per I sommersi e i salvati, pubblicato nel 1986 un anno prima della morte. Per la prima volta Levi, che è ormai in pensione, si cimenta dunque con una storia di invenzione e di avventura. Scopre così un mondo che per sua stessa ammissione non conosceva dal di dentro, quello in cui l’autore non racconta più “i guai passati” – secondo l’epigrafe del Sistema periodico – ma crea personaggi, intrecci e itinerari di carta. Un personaggio, dice Levi, è un essere strano, “disegnato in bianco e nero, abita in una pagina. Eppure ci si può innamorare di lui, lo si può odiare, insomma si è implicati emotivamente”. Si sviluppa così un rapporto di reciprocità e di collaborazione: succede da lettore – chi non lo sa? – ed è allora vero a maggior ragione da autore. Levi racconta di essere stato più volte in conflitto con se stesso e con la moglie sulla sorte dei personaggi di Se non ora, quando?, a partire da Leonid, il giovane tormentato che a un certo punto muore, o forse si lascia uccidere perché “nasce già morto, ha troppa morte dentro”. “Anche Dov [un altro personaggio] moriva”, dice Levi, “e ho dovuto farlo risorgere d’urgenza, perché mi sentivo in colpa. Far morire un personaggio è criminale; senza esagerare, non è come uccidere una persona, ma come esperienza in parte coincide”. L’autore, creatore di personaggi e di storie, è sovrano assoluto nel mondo che immagina. Gode di poteri senza limiti – “un senso di onnipotenza infantile”, nelle parole di Levi – ma proprio per questo è responsabile nei confronti di quei tanti “nulla d’inchiostro e di carta bianca” che però “a modo loro hanno un corpo”. Levi, che parla volentieri della genesi del romanzo, riferisce anche di una propria identificazione con i personaggi. Con Mendel innanzitutto, il cui nome significa “consolatore”. Ma in qualche misura anche con l’eroico Gedale, capace di non voltarsi verso il passato e vivere invece con leggerezza il presente, non per quello che Levi ha fatto ma per quello che avrebbe voluto fare nella propria breve esperienza partigiana. “Una cosa ti voglio dire, ammiro te e i tuoi compagni, e vi invidio anche un poco”, dice Smirnov a Mendel pochi giorni prima della fine della guerra. “Ci invidi? Non siamo da invidiare. Non abbiamo avuto un cammino facile. Perché ci invidi?”. “Perché la vostra scelta non vi è stata imposta. Perché avete inventato il vostro destino”.
In effetti Primo Levi con Se non ora, quando? scrive quello che non ha vissuto e che avrebbe forse potuto vivere se non fosse stato arrestato già nell’autunno 1943 e poi deportato ad Auschwitz. In questo senso anche il romanzo di avventure, ambientato perlopiù in Unione Sovietica e Polonia, può essere considerato autobiografico. Non racconta i fatti esperiti in prima persona, a cui sono dedicati altri libri, ma quelle possibilità non meno vere e concrete che sono i desideri dello scrittore sessantenne che guarda dietro di sé a quello che ha compiuto e a quello che non ha compiuto. Questo non annulla quanto detto prima a proposito di un romanzo con al centro il gusto per l’avventura, aggiunge semmai un tassello alla sua comprensione nel panorama degli scritti del chimico torinese. Levi stesso chiarisce quali sono stati gli spunti che lo hanno portato a scrivere Se non ora, quando?. C’è innanzitutto un episodio a cui ha assistito e che ha raccontato nella Tregua, quello del gruppo di giovani sionisti diretti in Palestina che agganciano il loro vagone a quello degli ex deportati. In secondo luogo c’è il colloquio con l’amico Emilio Vita Finzi, che dieci anni prima della stesura del romanzo gli racconta del suo incontro a Milano nel 1945 con un gruppo di partigiani ebrei provenienti dall’Europa orientale i cui membri rifiutavano di presentarsi come profughi, ripetendo di essere combattenti. Ma Levi già prima di conoscere questo episodio aveva in mente qualcosa se nel 1966, alla domanda di un intervistatore sul suo prossimo libro, aveva risposto di non stare scrivendo nulla per il momento, “ma mi tenta una meravigliosa storia, una storia vera, quella di un altro ritorno, di un’altra salvazione attraverso tutta l’Europa in guerra”. E aveva concluso: “È talmente piena di avventura e di necessità, di tragedia e di sorpresa, che sarebbe un peccato rimanesse da scrivere”. Oltre all’episodio della Tregua e a quello raccontato dall’amico c’è una terza fonte, un piccolo diario in yiddish scritto da M. Kaganovič sulle azioni di un gruppo di combattenti ebrei nella regione delle paludi del Pripyat (oggi Bielorussia), giunto in Italia alla fine della guerra. Levi trova una copia del libro di Kaganovič e lo traduce a fatica dallo yiddish “anche allo scopo di vedere come si ragiona” nella lingua degli ebrei orientali. Quando finalmente decide di dedicarsi al progetto del romanzo, legge e consulta decine di testi alcuni dei quali, cosa inconsueta per un libro di invenzione – ma abbiamo detto in quale misura Se non ora, quando? può essere considerato tale -, vengono citati nella nota bibliografica pubblicata in appendice. Non vanno dimenticati infine gli spunti offerti da alcuni temi di cui molto si discute alla fine degli anni settanta, dalla polemica in Israele sul comportamento degli ebrei “pecore condotte al macello” a quella sulla spettacolarizzazione della Shoah che segue la diffusione della serie tv americana Holocaust, peraltro recensita da Levi. Più in generale, è evidente la stretta parentela di Se non ora, quando? con La tregua, il libro in cui il reduce di Auschwitz aveva raccontato il lungo, difficile e anche picaresco itinerario di ritorno a casa. Entrambi sono libri di viaggio, entrambi sono introdotti da una carta geografica che l’autore considerava fondamentale e in entrambi si avvicendano a ritmo rapido episodi e personaggi diversi, eccentrici e strani.
Leggendo Se non ora, quando? può capitare di dimenticare di tenere in mano un romanzo italiano e pensare invece di avere di fronte un’opera tradotta. Una traduzione in effetti c’è, quella con cui Levi rende disponibile in italiano una cultura lontana e diversa come quella yiddish. L’autore costruisce, cioè traduce, “una lingua che non è mia”, e se questo spiega forse la minor considerazione del libro oggi presso la critica rispetto alle altre opere di Levi, allo stesso tempo ne illumina l’originalità. L’interesse di Primo Levi per la civiltà ebraica cresce nel corso degli anni, culmina con questo libro e continua senza declinare negli ultimi anni. Un interesse in parte parallelo a quello per l’ebraismo nella cultura italiana, cresciuto dalla metà degli anni settanta in scia alla scoperta della letteratura e dell’arte mitteleuropea, danubiana e della Vienna del tramonto asburgico. Secondo il più importante studioso e interprete italiano di questa civiltà, Claudio Magris, il mito asburgico (i cui protagonisti sono spesso ebrei) e la cultura yiddish diventano attuali come mai prima perché esprimono la frattura dell’identità, la frantumazione dell’intero e nel stesso tempo la nostalgia per la totalità perduta. La lacerazione dell’identità dei piccoli ebrei orientali di Joseph Roth, cittadini per eccellenza di una monarchia duplice fin dalla nomenclatura – imperiale e regia, austriaca e ungherese – non è in questo distante da quella che si dibatte tra modernità e tradizione del lattivendolo di Sholem Aleykhem che Levi include nella propria antologia personale La ricerca delle radici. Negli anni settanta la percezione di una crisi si fa spazio sulla scorta di shock petroliferi e stagflazione, delocalizzazione industriale e terziarizzazione, la nuova centralità di temi come i diritti e la sostenibilità ambientale, i prodromi della rivoluzione informatica, l’acme della globalizzazione; in queste nuove condizioni ecco crescere la lettura degli scrittori ebrei che da sempre sintetizzano la rottura e il confronto tra identità diverse. La doppia identità che l’ebreo fa naturalmente propria diventa così un passe-partout per indagare la condizione umana. Levi, che ha descritto in pagine indimenticabili l’ebraismo piemontese dei suoi antenati, con Se non ora, quando? si confronta con un mondo ebraico lontanissimo. Un mondo scomparso con la Shoah, ma che ha avuto il tempo di esprimere l’ultima grande letteratura epica della cultura europea. È con questa letteratura epica e con questa epica tout court che Levi dialoga nel romanzo. Nel capitolo conclusivo vediamo i partigiani ebrei, a Milano, confrontarsi con quegli ebrei strani di cui non immaginavano l’esistenza, ebrei che non parlano lo yiddish – letteralmente, “lingua degli ebrei” -, che si vestono come gli altri e hanno tratti simili agli altri: gli ebrei italiani. “E allora, come si distinguono dai cristiani quando passano per la strada?”, chiede Mendel a Chàim. “Appunto, non si distinguono. Non è un paese singolare?”.