Ma il Libro dei salmi è anche la traduzione in linguaggio umano del Libro della natura. Ecco perché è universale e in quanto tale patrimonio dell’umanità
In moltissime comunità ebraiche sparse nel mondo vige l’usanza di studiare su un Chumash, i cinque libri della Torà, stampato con l’aggiunta alla fine del Sefer tehillim, il Libro dei salmi. È una tradizione illuminante: anzitutto insegna che lo studio, per il quale serve l’intelletto, non va disgiunto dall’avodà she-ba-lev, dal servizio divino per il quale è indispensabile il cuore; suggerisce inoltre che uno studio ben finalizzato all’azione come shemirat ha-mitzwot, l’osservanza dei precetti, conduce al contempo al ricoscimento della sovranità e della provvidenza divine, e al colloquio con Dio, espressi nella tefillà, la preghiera, di cui i salmi sono un modello insuperabile, sia letterariamente sia religiosamente. Esiste inoltre, ecco un’ulteriore spiegazione, un parallelo tra Chumash e Sefer tehillim: entrambi sono divisi in cinque libri. Se della Torà la suddivisione è nota, meno conosciuto è il fatto che tradizionalmente i 150 salmi del cosiddetto ‘salterio’ – nome che deriva da uno strumento musicale a corde – sono anch’essi divisi in cinque libri: i componimenti dall’1 al 41, dal 42 al 72, dal 73 all’89, dal 90 al 106 e infine dal 107 al 150. Ascolto della Torà e preghiera attraverso canto e musica sembrano dunque ben radicati nella tradizione biblico-rabbinica sin dai tempi… di Davide, almeno, il re-poeta al quale il Sefer tehillim è da sempre attribuito.
In vero, è difficile datare con precisione storico-critica il Libro dei salmi, la raccolta di testi poetico-religiosi che apre la terza parte del Tanakh o Bibbia ebraica. Del resto, come scrisse rav Joseph Herman Hertz (1872-1946) introducendo un famoso siddur diffusissimo in Gran Bretagna: “La preghiera ebraica è antica quanto Israele. Persino un detrattore del giudaismo come Julius Wellhausen ammise che Isreale è il creatore della vera preghiera… e il climax di tale genio ebraico è il Libro dei salmi”. Tehillim significa lodi, ma la raccolta include inni e canti per diverse situazioni e condizioni esistenziali, inclusi eventi politico-militari di cui potremmo aver perso memoria; formule per feste e riti specifici che si svolgevano nel Tempio di Gerusalemme; testi per funzioni riservate ai re di Giuda. Ma anche preghiere semplici, che potevano essere recitate da chiunque per la loro bellezza, intensità e universalità.
Difficile contestare che alcuni di questi poemi potrebbero risalire davvero, se non a Davide, alla sua epoca. Nondimeno già le fonti midrashiche hanno relativizzato quella authorship, elencando ben dieci mitici compositori di salmi: oltre al re-poeta, troviamo: Adamo, Abramo, Melkizedeq, Mosè, Salomone, Asaf e i tre figli di Corach… Sì, anche i figli del ribelle Corach, a testimonianza che “dai peccati dei padri ci si può riscattare”. Non erano, secondo la tradizione, i maestri Shemayà e Avtalyon discendenti del cananeo Siserà, che opprimeva violentemente Israele al tempo di Debora? In un commento alle prime due parole del primo salmo – ashre ha-ish, beato l’uomo – leggiamo: “Come i salmi sono stati cantati da dieci persone diverse, così portano il nome di dieci canti diversi: vittoria, melodia, salmi, canto, lode, preghiera, benedizione, ringraziamento, beatitudine, halleluJà. Il più grande di tutti è ‘allelu-Jà’, perché include il nome di Dio e la lode in un’unica parola. Rav [Yehudà ha-nassi] chiamava Hallelu-Jà tutto il Sefer tehillim” (cit. da L’albero trapiantato, tr. di Alberto Mello, Chirico, Napoli 2020, pp.29-30).
I salmi hanno continuato a ispirare e innervare la vita religiosa di Israele dopo l’esilio babilonese, entrando infine massicciamente nelle liturgie sinagogali, nei siddurim e nei machzorim ovvero nei libri di preghiera degli ebrei di tutto il mondo, di ogni minhag e denominazione. Non solo sono stati ‘pregati’, per così dire, ma tali salmi sono stati studiati da schiere di maestri, i cui commenti entrarono a far parte di uno specifico corpus midrashico. Sopravvissuto in pochi manoscritti, il Midrash tehillim venne stampato la prima volta a Costantinopoli nel 1512 (editio princeps), commentato e riedito da Aaron Moses Padua nel 1865; e infine completato (per i salmi mancanti dal 119 al 150) nella classica edizione critica di Salomon Buber, pubblicata a sue spese nel 1891 e ancora in circolazione. Altri estesi commenti ai salmi, come quello del provenzale David Kimchi, il Radaq (1160-1235), ebbero edizioni separate (ne esiste una traduzione in italiano, a cura di Luigi Cattani, in tre volumi editi da Città Nuova). Si può inoltre dire che il Libro dei salmi sia l’unico testo biblico che serva da ‘preghiera comune’ sia agli ebrei sia ai cristiani. Il mondo ebraico usa poi alcuni gruppi di salmi, come l’hallel (salmi dal 113 al 118), durante molte solennità; l’hallel ha-gadol o ‘grande hallel’ (salmi 135-136) soprattutto durante il seder di Pesach; i shire ha-ma‘alot o i 15 canti dei gradini (i salmi 120-134) nei pellegrinaggi e nella birkat ha-mazon.
Ma alcuni salmi intensi e altamente emblematici, come il salmo 137, più noto in letteratura con il titolo latino Super flumina Babylonis – “Sui fiumi di Babilonia, là ci fermammo e piangemmo ricordando Sion…” – hanno ispirato appunto poeti e scrittori come Salvatore Quasimodo e Primo Levi, nonché musicisti come Pierluigi da Palestrina e Franz Xaver Richter. Questo salmo ha scandito per secoli la fedeltà del popolo ebraico verso la propria terra, eretz Israel v-Yrushalayim, nella speranza del ritorno dall’esilio e della ricostruzione. E che dire del lunghissimo salmo 119, inno alla saggezza della Legge del Signore, che ha motivato la fedeltà alla Torà e alla sua osservanza a dispetto di ogni persecuzione e coercizione ad apostatare? I salmi non sono stati solo delle preghiere ma la road map valoriale della vita ebraica dentro e fuori Israele, dando eco ai sentimenti gioiosi e dolorosi come pure ad angosce e speranze sia dei singoli sia dell’intero ‘am Israel, il popolo ebraico nel suo insieme. Come tali, dice ancora rav Hertz, “attraverso le epoche credenti di ogni fede hanno trovato in questi poemi religiosi le parole per dire a Dio i loro guai, confessare i loro peccati, chiedere perdono e aiuto, rallegrarsi del rinnovato favore divino. Essi sono divenuti l’innario dell’umanità”. Le ri-traduzioni del laico Guido Ceronetti (ed. Adelphi) e del cattolico David Maria Turoldo (ed. San Paolo) sono lì a confermarlo.
Nella raccolta midrashica medievale nota come Yalkut Shomini si legge questo mashal, questa parabola:
Narrano i nostri maestri che quando ebbe completato la stesura del Sefer tehillim, il re David si inorgoglì. Si presentò a Qadosh Baruch Hu e Gli disse: ‘Signore del mondo, vi è nell’intero creato una creatura che ha cantato più lodi e inni di quanti ne abbia composti io?’. In quel momento apparve sul suo sentiero una rana, che gli disse: ‘David, non inorgoglirti, perché io canto più inni e lodi di te; in più, sono occupata in una grande mitzwà: vi sono creature, sulle rive delle acque, la cui sussistenza dipende totalmente dalle creature che vivono nell’acqua…e quando hanno fame, mi prendono e mi mangiano, così io realizzo ciò che è scritto: Se il tuo nemico è affamato, sfamalo! (Mishlè/Prov 25,21).
Il canto degli animali – esaltato da quello straordinario testo rabbinico che è il Pereq shirà – è nel mondo delle creature quel che il Sefer tehillim è nel mondo degli esseri umani; anzi, il Libro dei salmi può dirsi la forma, in linguaggio umano, del libro della natura. Per questo il suo linguaggio è, sì, intimamente e intensamente ebraico ma al contempo è universale e usufruibile per donne e uomini di ogni fede e di ogni cultura, vero patrimonio spirituale dell’umanità.
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma