Come mai proprio ora gli shababnikim, i pluripremiati quattro ragazzi in crisi di identità, stanno vivendo un nuovo successo?
Cappello nero a tesa larga in stile cowboy, giacca rigorosamente nera ma dal taglio corto: i quattro protagonisti della serie televisiva “Shababnikim” più che ultraortodossi ricordano i protagonisti de “Le Iene” di Quentin Tarantino. E forse anche per questo ormai a Purim non manca chi, a gruppi, si traveste come loro.
“The New Black” – ovvero la traduzione in inglese di “Shababnikim” – non rende giustizia a un titolo che già da solo la dice lunga. Il termine – in ebraico al maschile plurale, come i quattro eroi di questa serie televisiva – trova la sua radice, infatti, nell’arabo “shabab” che starebbe a significare “fannullone” o “perditempo”.
Forse la traduzione più appropriata in inglese sarebbe stata l’espressione “too cool for school”.
La scuola in questione è una Yeshiva di Gerusalemme in cui tre dei protagonisti fanno fatica a stare dietro agli studi rabbinici e per tanto vengono affiancati al “secchione” Gedaliah che, al posto di reindirizzare i compagni di stanza sulla retta via, finisce, a causa della loro influenza, con il perdere le proprie certezze.
Più che a “Shitzel” questa serie quasi strizza l’occhio a “Sex and the City”. Ma al contrario: quattro uomini, al posto di quattro donne; in piena giovinezza, e non in crisi di mezza età; in cerca del vero amore e non di sesso sfrenato.
Gerusalemme non è New York e infatti sono tutti attratti da Tel Aviv, sin city, e da Gerusalemme alla fine scappano, sentendosi pesci fuor d’acqua.
Eppure, come Carrie e le sue amiche, è l’amicizia ad unirli nella loro crisi identitaria tra fedele appartenenza alla comunità ultraortodossa ma, al tempo stesso, il desiderio di non rinunciare alla modernità.
Sono molti i temi trattati in questo tv show trasmesso in Israele tra 2017 e il 2018 sul canale HOT, dove ha riscosso un enorme successo, toccando un nervo scoperto nella società israeliana nel suo insieme e ricevendo quattro premi da parte dell’Israel Academy of Film and Television Awards.
Sceneggiatore e ideatore della serie è Eliran Malka, cresciuto in una famiglia religiosa nella città costiera di Nahariya, al nord di Israele, dove ha frequentato una yeshivah durante le scuole superiori. Solo dopo essersi trasferito nella “big city” di Gerusalemme per frequentare la Ma’aleh School of Television, Film and Arts – un’istituzione orientata all’intersezione tra mondo laico e religioso – ha incontato i suoi primi “shababnikim”: «A Gerusalemme ho iniziato a vedere e conoscere tipi di persone che non avevo mai visto prima – ha raccontato al Time of Israel – studenti di yeshiva estremamente coinvolti nella vita occidentale, ben vestiti e che fumavano sigarette…».
Una fascia della popolazione al confine tra due mondi, che ha incuriosito l’autore prima e ha poi conquistato il pubblico, che non riesce a scollarsi dallo schermo fino alla fine della seconda – e per ora ultima, anche se si parla da anni di una terza – stagione.
È infatti quell’intersezione tra vita religiosa e urbanismo secolare che viene decifrata ed esplorata in “Shababnikim”. Ci sono voluti cinque anni per scrivere la sceneggiatura della prima stagione, nel corso della quale Malka si è ispirato a scene di “ordinaria” quotidianità gerosolomitana. Come la scena girata al Sacher Park, dove aveva visto con i propri occhi ragazzi laici giocare a football americano con alcuni ragazzi di una yeshivah intenti in un barbecue: ovvero uno dei momenti, più divertenti, che aprono il pilot della prima stagione.
L’umorismo gioca un ruolo cruciale in tutte e due le stagioni ed è stato uno degli obiettivi fortemente voluti dal noto produttore Danny Paran, con alle spalle 40 anni di carriera: «La realtà – ha commentato su Time of Israel – ha bisogno di umorismo e di una sorta di cinismo che faccia venir voglia di guardare uno spettacolo, e renderlo credibile».
Questo spiegherebbe il successo internazionale e la scelta, a partire da maggio 2023, di distribuire la serie tramite il servizio streaming di ChaiFlicks. Oggi come non mai questa serie è tornata in auge ed è stata acquistata anche da Netflix, nonostante la guerra. O forse proprio per questo.
Poiché, in tempi di emergenza, la società laica e quella ortodossa si sono avvicinati come non si era mai visto prima, uniti su un unico fronte. E lo sguardo su questa società complessa, offerto da Shababnikim, cerca proprio di restituire le diverse stratificazioni di una comunità dove le sfumature di “nero” sono molto più di 50.
Come le sfumature nel carattere dei quattro eroi principali, a loro volta così diversi tra loro: Avinoam (interpretato da Daniel Gad) – figlio di uno spregiudicato membro della Knesset, leader di un partito ultraortodosso – che è il più sofisticato e open mind dei protagonisti, al punto di innamorarsi di una ragazza laica; Dov, soprannominato Lazer (interpretato da Omer Perelman) – proveniente da una famiglia americana benestante, con nessuna intenzione di accasarsi, nonostante la forte pressione famigliare – che è il più cinico, ma sempre pronto ad aprire il portafoglio quando i suoi compagni si trovano in momenti di crisi; Meir (interpretato da Israel Attias), proveniente da una povera famiglia mizrahi che vive un costante senso di inferiorità nei confronti dei suoi compagni di yeshiva ashkenazi; infine Gedaliah (interpretato da Ori Laizerouvich), nerd e pio studioso della Torah che si unisce, suo malgrado, al gruppo, per poi diventarne il vero leader spirituale.
Oltre ai personaggi principali non mancano altri affascinanti personaggi secondari, tra cui spicca lo shadchan – il “matchmaker” – magistralmente interpretato dal celebre Guri Alfi, che nel suo essere old school, ogni qual volta viene messo alla prova dalle turbe affettive dell’intrepido quartetto, riesce sempre a rivelare perle di saggezza che avrebbero messo fortemente alla prova persino le certezze delle quattro eroine newyorkesi.
A proposito di eroine, nonostante i personaggi principali siano tutti uomini – anche perché di un mondo di uomini si tratta, nel contesto delle yeshivot – non mancano personaggi femminili altrettanto diversi tra di loro e, di nuovo, caratterizzati da tutte le sfaccettature del caso. A partire da Devorah (interpretata da Maya Wertheimer) sorella di Lazer e la donna per cui perde la testa Gedaliah, messo a dura prova non solo dalla sua intelligenza ma anche dalla sua incredibile conoscenza della Torah: altro elemento che ribalta gli stereotipati ruoli di genere all’interno delle comunità haredi.
In un’intervista al Jerusalem Post i quattro attori principali hanno raccontato anche la propria esperienza personale nel corso dei due anni di produzione della serie, nel corso della quale, oltre che colleghi, sono diventati anche amici, proprio come nella fiction.
Nell’intervista a Daniel Gad – che interpreta Avinoam – alla domanda sul perché il suo personaggio abbia avuto così tanta risonanza all’interno di un pubblico laico, ha riposto che probabilmente è facile identificarsi: «Penso che molti spettatori si identifichino in lui, poiché dentro ognuno di loro esiste un Avinoam. Ognuno di noi ha un conflitto interno come lui: è un uomo che crede fermamente in Dio, ma sta cercando di integrarsi nella società moderna». E non si riferisce solo al pubblico di origine ebraica. Come spiega nell’intervista, un giorno un ragazzo tedesco non ebreo gli ha chiesto un selfie e gli ha detto che questo spettacolo gli aveva cambiato la vita.
Perché, proprio come in “Sex in the City”, le dinamiche raccontate in questa serie sono di portata universale – come universale è la splendida colonna sonora di musica rock-pop, che accompagna ogni episodio – ma con quel gusto locale tipicamente “gerosolomitano” che ci fa scoprire una sua versione inaspettata: la Gerusalemme laica che scopre la possibilità di dialogo con gli haredim, uno dei tanti lati nascosti di Israele che trovano spazio in questa serie televisiva volta a mostrarne la sua incredibile poliedricità.
«Quando qualcuno è diverso da te, se non provi a scoprire il suo background o il suo mondo, si è destinati a rimanere intrappolati nella propria ignoranza. È in questo modo che si generano i conflitti – ha spiegato Ori Laizerouvich, che interpreta Gedaliah – Invece, quando si inizia ad avere una conversazione e a conoscere l’altro, è possibile trovare quel punto in comune che unisce le persone e permette di superare le difficoltà. La forza di questo show è che fa riflettere sui conflitti non solo tra ortodossi e laici, o ebrei e non ebrei. Parla di quattro ragazzi che, come in ogni altro luogo della terra, sono alle prime prese con l’amore, con la paura di diventare adulti e il desiderio di scoprire il mondo. Questo è il segreto del successo del nostro show: indagare sentimenti universali e, soprattutto, l’incredibile capacità di creare connessioni tra le persone più diverse».