Storia e storie di una figura emblematica
Se ormai sull’ebraicità di Gesù gli studiosi dei due mondi, quello ebraico e quello cristiano, tendono a convergere (sulla base ovviamente della narrativa neotestamentaria e nella misura dello ‘storicamente’ accertabile), sull’ebraicità di Paolo di Tarso, il cui nome in origine era Shaul, e sulla valutazione complessiva da dare alla sua opera, di vita e di penna, le opinioni restano ancora divergenti, e molto. Più del suo messianismo, che potrebbe di per sé non risultare così problematico, totalmente inaccettabili, dal punto di vista ebraico, sono certi suoi giudizi negativi sulla Torà (che arrivano alla sua quasi-abrogazione), sui quali si innesta una dottrina potenzialmente sostituzionista – sostituisce cioè la fede alle opere, nonché il popolo di Israele con la chiesa – e che, di fatto, gli fanno assumere i panni dell’apostata piuttosto che dell’apostolo. Ma quanto ebreo era davvero Paolo? Anzi, che tipo di ebreo era veramente? E soprattutto, è possibile attraverso una lettura attenta, e innovativa, del suo epistolario (almeno delle sette lettere ritenute ‘autentiche’), restituirlo al milieu del giudaismo del primo secolo dell’e.c. [dell’era comune/cristiana] a cui comunque appartiene? Sono questioni complesse, non passibili di semplificazioni ideologiche, alle quali negli ultimi anni sono stati dedicati libri su libri, e sulle quali si è espresso e si esprime ancora tutto un filone di scholarship ebraica, specie negli States e in Israele, almeno a partire dal testo di Joseph Klausner (1874-1958) intitolato Mi-Yeshu ‘ad Paulus del 1939.
Un nuovo, audace e stimolante tentativo di recuperare Paolo alla tradizione ebraica è stato compiuto di recente dagli studiosi Marco Cassuto Morselli e Gabriella Maestri, impegnati anche sul fronte del dialogo ebraico-cristiano, nel secondo volume della loro grande opera Nuovo Testamento. Una lettura ebraica, dedicato alle Lettere di Shaul/Paolo (Castelvecchi, Roma 2021). I criteri che hanno ispirato questa ri-traduzione dal greco in italiano del corpus paolino, con introduzioni e commenti a ogni epistola, sono esplicitati dagli stessi studiosi: rimuovere l’impressione che le controversie sollevate da Paolo siano espressione dei conflitti tra ebrei e cristiani, dato che al tempo di Paolo il cristianesimo semplicemente non esisteva ancora; ricostruire la temperie apocalittica che attraversava una parte del giudaismo in terra di Israele sotto l’oppressione economico-militare dell’impero romano, temperie che si riflette nell’attesa escatologica del messia e nella certezza della ‘fine dei tempi’ ormai prossima di cui sono piene le lettere paoline; e non ultimo, mostrare il legame linguistico di quelle lettere con il contesto religioso e culturale del giudaismo del secondo Tempio (con scelte impegnative: scrivere tevilà al posto di battesimo; teshuvà al posto di conversione; messia invece di Cristo; in particolare distinguendo tra Adon-signore quando riferito a Gesù e HaShem/Eloqim quando riferito al Creatore e Signore secondo la fede monoteista ebraica). Infatti, spiegano Cassuto Morselli e Maestri, “anche se Shaul avesse scritto le sue lettere direttamente nel greco della koinè [ma molti, come Mariano Herranz, ne dubitano e pensano siano state scritte in aramaico], egli era comunque immerso nel mondo della Torah”, e solo questa rilettura semantica permette di “liberare quei testi da fraintendimenti interpretativi tanto diffusi quanto fuorvianti”.
È questo, in effetti, uno degli obiettivi concreti che si pone l’intero sforzo di rilettura ebraica del Nuovo Testamento operato dai due studiosi: contribuire a una comprensione della vita e dell’opera di Shaul/Paolo evitando chiavi anti-ebraiche o potenzialmente utilizzabili dall’antigiudaismo religioso cristiano, mai davvero scomparso dal linguaggio e dalla mentalità di molti teologi e pastori cristiani anche dopo la Shoà e la revisione conciliare (la svolta fu il documento Nostra Aetate del 1965). Per molti cattolici, udire i nomi propri del Nuovo Testamento in ebraico, e non tradotti, oppure termini-concetti della loro teologia risuonare in ebraico, potrà risultare straniante oltre che strano. Ma li costringerà a interrogarsi sul grado di fedeltà delle traduzioni moderne dei testi sacri originariamente scritti o in ebraico (la Torà) o in greco (il Nuovo Testamento), in entrambi in casi vergati da ebrei vissuti in un’epoca in cui – come del resto oggi – si poteva essere ebrei in molti modi diversi. Il volume di Cassuto Morselli-Maestri non pretende certo di interferire con le discussioni teologiche interne alle chiese cristiane (ad esempio, sta circolando in queste settimane la proposta di cambiare il nome della festa cattolica della “conversione” di san Paolo in “vocazione”, per sottolineare come l’apostolo delle genti non si sia mai convertito al cristianesimo in quanto tale, e sia rimasto fondamentalmente un ebreo, seppur ellenizzato e messianico-apocalittico). Non di meno, tale volume può stimolare cristiani ed ebrei a superare alcuni stereotipi: che Paolo sia il vero fondatore del cristianesimo (come si cominciò a pensare nel XIX secolo); oppure che Paolo fosse un nemico degli ebrei per i quali intese annullare il valore della circoncisione (la riteneva non necessaria solo per i non ebrei che credevano in Gesù, non diversamente da come pensano molti altri maestri di ieri e di oggi); che abbia voluto esaltare lo ‘spirito’ negando la ‘lettera’; o che fosse del tutto schizofrenico, perché ora sostiene la continuità tra Torà ed evangelo ora li contrappone, come contrappone Adamo a Cristo, ecc.
Certo, la prosa religiosa paolina è densa e la sua retorica – un misto di midrash e approccio allegorico ellenistico – tutt’altro che lineare e priva di ambivalenze. Ma resta un prodotto del giudaismo ellenistico di quel secolo, anzi di quei difficilissimi anni che precedettero la distruzione del Tempio e di Gerusalemme, per mano romana, e che cambiarono per sempre anche la storia di Israele, non solo a livello politico. E restano soprattutto le domande, storiche e religiose, sul complessivo messaggio messianico a cui Paolo dedicò la vita, forse sacrificandovi anche gli affetti familiari, visto che a un certo punto si trovò non più sposato (quando invece doveva esserlo stato, stando a quel che scrive di se stesso come fariseo). Tra le domande legittime c’è pure questa: dobbiamo davvero credere a tutto quello che Shaul/Paolo scrive di se stesso in una vena autobiografica? Fu davvero fariseo, della tribù di Beniamino, studente a Gerusalemme alla scuola di Rabban Gamliel? C’è chi ne dubita, come Hyam Maccoby (1924-2004), in uno studio da poco tradotto in italiano dall’editore Massari di Viterbo. Infine, pur concesso che non tutto quel che scrive di sé sia ‘vero’, la sua missione e il suo messaggio cambierebbero per questo? Infatti, la comprensione di Paolo e della sua opera, in sé, è indipendente e indissociabile dalla lunga storia della ricezione e delle interpretazioni del corpus paolino – da Agostino a Lutero, fino a Jacob Taubes e Giorgio Agamben… per intenderci – e detto altrimenti: fare i conti con Paolo significa pensare i fondamenti stessi della nostra cultura occidentale. Una questione che va persino al di là del confronto/scontro tra giudaismo e cristianesimo.
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma