L’esercizio della libertà si esplica anche nell’interpretazione continua delle norme, alla luce del presente, nel rispetto dello spirito originario.
La liberazione è cosa ben diversa dall’esercizio della libertà.
Shavuot è la festa della legge e del suo farsi. Non solo. È anche la festa che, proprio in virtù di questo aspetto, celebra il passaggio dalla condizione di liberati a quella di liberi.
Nell’epoca contemporanea pensiamo la liberazione un atto che si consuma in un’istantanea e che segna la fine della tirannia. Una scena che di solito è caratterizzata dalla caduta del despota, spesso dal suo esilio e che dice in sostanza: io non voglio più che il tuo potere si eserciti su di me e mi condizioni. Meglio che tu non sia presente nella mia quotidianità.
Liberazione come rottura
La liberazione ha un aspetto di rottura: nasce a partire da un atto che avviene in pubblico, e segna il passaggio tra ciò che prima era fondamento del senso comune e dell’ovvio, e per questo indiscutibile e ciò che, a distanza di tempo, diviene oggetto di confronto. In questo senso la liberazione è un processo che non è immediato ma che può svolgersi in un tempo lungo, il cui valore si riassume in un atto che si contrappone a ciò che è stato considerato legittimo fino a quel momento. Improvvisamente, tutto ciò che non era possibile, lo diviene.
La liberazione è quel processo che segna il passaggio da una condizione di schiavitù e di oppressione – comunque non paritaria – a una, invece, dove molte cose sono possibili e, soprattutto, dove conta la convinzione che il precedente vincolo di oppressione, di sopruso subìto, di costrizione può essere superato.
Norme e limiti per dare forma all’azione
Tuttavia, l’atto di liberazione, di per sé, non definisce un programma.
Un programma è la conseguenza di quel corpo di norme, di atti, di deliberazioni che inaugurano un nuovo ordine e dunque definiscono il raggio di azione, anche con limiti, in cui inizia a prendere forma la libertà. La libertà in questo senso è prevalentemente – anche se non solo – affermazione positiva: ovvero insieme di prescrizioni che stabiliscono (anzi, più precisamente, che normano) le modalità dell’esercizio della libertà.
L’esercizio della libertà si pone in relazione a un apparato di norme che vincola i contraenti del patto, ed è tale perché, appunto, si dà un patto. Per questo la libertà e il suo esercizio non sono solo lo svolgimento di un percorso che avviene nell’ambito politico, ma anche in quello filosofico e religioso. Quel percorso non è solo una storia delle norme, ma è il processo attraverso il quale le norme si discutono, si scrivono e si riscrivono, e dunque si modificano.
Presupposto dell’esercizio della libertà, in altre parole, non è la legge, ma il fatto che essa ha una storia e una definizione non solo concettuale ma pratica, costruita nel tempo, attraverso un processo che non è solo il lento svolgimento dei suoi presupposti ma anche la loro interpretazione. Il nocciolo duro dunque è che cosa s’intende con atto di interpretazione.
I percorsi dell’interpretazione
Ci sono due percorsi che definiscono l’interpretazione.
Il primo è l’esercizio: è un atto che percorre ciò che è incluso dentro la legge e che, in forza di uno studio di fonti, fa emergere il contenuto. Il secondo percorso consiste nell’interrogarsi, singolarmente o in gruppo, sul modo con cui la legge si mette in relazione col soggetto. In questo secondo percorso un contenuto acquista valore in virtù delle domande che suscita, ovvero per la capacità, la volontà, la curiosità che stimola negli individui.
La norma è tale per cui non può soddisfare tutti né prevedere tutte le possibilità. Da ciò deriva l’insoddisfazione di ciascuno nel proprio tempo che ognuno può decidere di subire dando per definita una volta per tutte l’interpretazione della norma. Oppure, in nome di domande di giustizia, ognuno può scavare nei non detti e provare ad aprire nuovi varchi. Dentro lo spirito della legge, senza recedere sulla domanda di libertà.
I due percorsi non sono alternativi: la storia delle legge, ovvero il suo farsi nel tempo, vive di entrambi.
Classe 1955, nato e cresciuto a Livorno, studia a Pisa dove inizia la facoltà di Filosofia, ma si innamora di quella di Storia. Ha insegnato al liceo e all’università, da anni lavora alla Fondazione Feltrinelli in quanto Direttore dei contenuti editoriali. Si definisce uno storico sociale delle idee (ci ha assicurato essere una vera specialità, benché nessuno finora abbia capito cosa sia). Scrittore e giornalista, dicono che il suo branzino al sale sia leggendario.