Dalla terra al debito pubblico, l’anno sabbatico per riequilibrare la vita sulla terra
Un anno intero di riposo dopo sei di lavoro. Shemità, ossia l’anno del rilascio o sabbatico, cade ogni sette anni e l’ultimo è appena iniziato, la sera dello scorso 6 settembre. Meno noto dello Shabbat che interrompe le attività lavorative della settimana, il riposo di shemità riguarda principalmente la terra, e specificamente quella di Israele.
L’abbandonare ogni attività di taglio, semina, potatura e mietitura di tutti i campi consente ai terreni di rigenerarsi e arricchirsi di nuove sostanze minerali, dopo sei anni di sfruttamento. Al tempo stesso, rappresenta un segno di grande fiducia nella generosità divina che, come scritto nel Levitico, non abbandonerà il contadino né nell’anno di inattività, quando potrà comunque raccogliere e mangiare quanto la terra offrirà spontaneamente, né in quello successivo alla pausa. Secondo quanto promesso nelle Scritture, la terra nel sesto anno produrrà così tanto da consentire di accumulare scorte anche per l’ottavo fino al momento cioè di poter consumare il nuovo raccolto.
Shemità non riguarda però solo la terra, anche se alla terra tutto comunque viene ricondotto. L’anno sabbatico, che oggi si riferisce perlopiù al mondo accademico, nel suo ambito agrario originario, in un’epoca in cui la coltivazione era alla base del vivere, comprende l’economia in senso più ampio. Se da una parte si impone di non coltivare e di dedicarsi alle pratiche che rinnovano ed elevano lo spirito, dall’altra si consente comunque di godere dei frutti della terra, abbandonando però il senso della proprietà privata a favore della collettività. Sempre secondo quanto indicato nella Torah, quanto il campo continua a produrre nel settimo anno potrà essere raccolto non solo dai contadini che lo possiedono, che a questo punto tecnicamente non ne sono più i proprietari, ma da tutti i bisognosi nonché dagli animali selvatici. Tra i bisognosi rientravano un tempo anche le persone ridotte in schiavitù per debiti, alle quali doveva essere concessa la libertà. E anche sui debiti la shemità ha molto da dire. Durante quest’anno, infatti, quanto dovuto dovrà essere condonato, bloccando così l’accumulo di disparità economica e di impoverimento progressivo ed esponenziale del debitore.
Molto di quanto velocemente illustrato potrebbe di primo acchito portare a pensare all’anno sabbatico come a uno stupendo progetto utopico, tanto affascinante quanto legato a un mondo passato e a una società diversamente strutturata, basata prevalentemente sull’agricoltura. Se a questo si aggiunge che il precetto biblico è sempre stato letto solo riguardante Israele, e anche per questo disatteso nei circa due millenni in cui il territorio non è stato sufficientemente abitato e coltivato da ebrei, si potrebbe tranquillamente considerare il tutto alla stregua un bel sogno.
Sono invece tante le realtà ebraiche anche fuori da Israele e in particolare negli Stati Uniti che non la pensano in questo modo. Tra i partner di Shmita Project ad esempio, si leggono i nomi di numerose organizzazioni ambientaliste statunitensi, da Hazon a Grow Torah , da Aytzim a Urban Adamah tutte concordi nell’affermare la modernità delle parole contenute nella Torah estendendone il messaggio al mondo contemporaneo. Tanto che nell’introduzione al progetto si legge: «Non vogliamo semplicemente aumentare la consapevolezza della shemità. Vogliamo anche esplorare i modi in cui gli insegnamenti tradizionali sulla shemità gettano luce su una gamma significativa di questioni contemporanee a cui si fa direttamente o indirettamente riferimento nel concetto di “shemità”, tra cui riposo e lavoro, relazione con la terra, relazione con la comunità, relazione con debito e alleggerimento del debito, definizioni di comunità e la questione del consumo stesso».
Partendo quindi dalla tradizione ebraica, il progetto si rivolge al mondo di oggi e ai suoi problemi, ambientali ed economici. Il riferimento più immediato è alle moderne istanze ambientaliste e alla ricerca di un sfruttamento sostenibile delle risorse. In un tempo come il nostro in cui la coltivazione intensiva e l’uso di fertilizzanti di sintesi ha dato l’illusione di poter attingere all’infinito dal terreno portando in realtà al suo impoverimento, il recupero dell’antica tecnica della rotazione e del maggese (applicata da shemità a tutte le coltivazioni), restituirebbe alla terra la sua salute microbica naturale, ripristinando tra gli altri i livelli di azoto e di fosforo essenziali alla sua produttività.
Passando dal riposo della terra a quello dell’uomo, una delle associazioni di idee possibili è quella con i mesi di pausa forzata a cui la pandemia ci ha costretto nell’ultimo anno e mezzo. Nei contribuiti riportati dal sito di Shmita Project si trovano articoli come quello firmato dal Rabbi Fred Scherlinder Dobb che operano un parallelismo tra quanto imposto dal Covid e l’esigenza di operare una reale pausa nelle nostre vite. Allargando però il campo, l’interesse è perlopiù rivolto a una visione sostenibile ed ecologica del vivere, in una rinnovata considerazione dell’alternanza tra tempi di lavoro e momenti di riposo e da una sostanziale revisione delle modalità di produzione.
Parte dalla Torah e diventa politico anche il discorso sviluppato su JTA ) da Meghan Kallman, senatrice dello stato di Rhode Island, insieme al rabbino Lex Rofeberg. Entrambi si definiscono millennial e con questo intendono di essere cresciuti «sotto la peggiore disuguaglianza dall’età dell’oro, esacerbata e simboleggiata da una crisi del debito studentesco e sanitario». Dalla realtà statunitense il loro discorso si allarga a quella globale, ricordando come «gli effetti disastrosi della crisi climatica, delle estinzioni, degli sfollamenti e del degrado ambientale minacciano di trasformare la vita in un incubo per la maggior parte del pianeta». «La nostra unica possibilità per evitarlo – proseguono – è rivedere drasticamente la nostra società e le sue priorità». Nel trovare la risposta gioca un ruolo fondamentale il loro essere ebrei e la possibilità, recuperando lo shemità, «di ridefinire le priorità di questo sacro rituale e di applicare la sua saggezza in modi concreti ai nostri tempi».
Senatrice e rabbino auspicano che quello che è da poco iniziato sia davvero inteso come un anno sabbatico collettivo, come la possibilità di ricalibrare la società nel suo insieme, allineandola ai principi di giustizia e di equità per gli esseri umani oltre che per le terre che abitiamo. Senza abbandonare la questione agricola e ambientale, ma abbracciandola in un discorso più ampio, rivolto anche a chi non coltiva la terra e che non vive in Israele, i due riaffermano l’esigenza di passare da un’idea di controllo e dominio della terra a uno di apprezzamento e di interdipendenza. Più in generale, reclamano più rispetto per l’ambiente in cui viviamo con un occhio rivolto alla quanto mai impellente questione climatica: «Shemità propone che per un anno gli umani evitino di trattare la terra semplicemente come un mezzo per i nostri fini; non dobbiamo pensare in termini di espansione illimitata, ma piuttosto in termini di sostenibilità e riposo. Lasciare la terra a maggese rifiuta l’idea che il nostro pianeta e le sue risorse esistano solo per servirci».
L’altro punto nodale di shemità su cui Kallman e Rofeberg si concentrano è quello della remissione dei debiti. Come ben sanno quanti si battono a livello globale per la cancellazione del debito dei paesi in via di sviluppo, liberare i debitori dal giogo di questo dovuto ai creditori interromperebbe l’accumulo di ricchezza e offrirebbe sollievo a coloro che lottano per soddisfare i propri bisogni primari. Portando come esempio la realtà statunitense, la senatrice e il rabbino ricordano che due terzi dei fallimenti negli Usa di oggi riguardano problemi medici e debiti sanitari, mentre nel campo scolastico gli universitari sono complessivamente gravati da quasi 1,6 trilioni di dollari per prestiti studenteschi.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.