Intervista allo storico Simon Levis Sullam
Ricordare, celebrare, commemorare, usare. Un evento tragico come la Shoah può essere ridotto a bene di consumo? Può diventare uno strumento politico, nel nome della paura che si possa ripetere? O addirittura merce da usare a scopo di lucro? Sono derive che nel corso degli anni si sono manifestate, anche in ambito ebraico e anche nel Vecchio Continente. Ne abbiamo parlato con Simon Levis Sullam, professore associato di storia contemporanea a Ca’ Foscari (Venezia).
Cosa significa commercializzare la Shoah? E quali effetti produce?
Commercializzare la Shoah significa strettamente parlando farne un oggetto di guadagno economico. Più in generale può significare proporne una riproduzione massificata, tesa allo sfruttamento economico. Si tratta di una forma di banalizzazione, di riduzione ad “oggetto” di uso comune, per di più a scopo di lucro. Gli effetti sono appunto quelli dell’”uso” strumentale, oltre che della estrema semplificazione e della completa diminuzione di uno degli eventi più violenti del XX secolo.
E dal punto di vista ebraico, cosa significa?
Per gli ebrei la Shoah rappresenta un evento centrale della storia del secolo scorso e certamente il più traumatico della storia del popolo ebraico. Gli ebrei hanno per motivi comprensibili circondato la Shoah di un’aura sacrale e ne custodiscono il ricordo attraverso la memoria familiare ma anche attraverso rituali liturgici e istituzionali. La commercializzazione è all’estremo opposto di questa sensibilità e in generale anche la strumentalizzazione. Tuttavia per quest’ultimo aspetto la questione si complica se pensiamo alla funzione politica che la memoria della Shoah ha per lo Stato di Israele, dove a volte essa è oggetto di un uso strumentale ad esempio sul piano diplomatico.
Trattare questo argomento, l’industrializzazione della Shoah, a volte è stato bollato come un gesto di antisemitismo o come potenziale motore di gesti antisemiti. Perché? Alcuni dei critici dell’industria dell’Olocausto sono sembrati utilizzare questo tema a loro volta in modo strumentale per criticare ambiguamente gli ebrei rispetto al loro supposto potere, o allo stereotipo dell’attitudine ebraica al guadagno, o come attacco gratuito a Israele. La critica all’industria dell’Olocausto, però, ha anche sollevato in modo utile la questione della strumentalizzazione della memoria della Shoah, della sua commercializzazione e della sua banalizzazione.
La massificazione del turismo nei campi di concentramento è molto impressionante. Se da un lato può essere un dato positivo perché la memoria, l’obiettivo di far conoscere la storia coinvolge un numero alto di persone, dall’altro lato sembra, appunto, un gesto consumistico. Cosa ne pensa?
Credo che la crescita enorme dei viaggi della memoria e anche del turismo della memoria sia in effetti un fenomeno complesso. Da un lato accresce la conoscenza dei luoghi ed eventi e rende le persone più consapevoli di quanto è avvenuto. Dall’altro lato inserisce i campi di concentramento e sterminio nei percorsi del turismo di massa facendone delle destinazioni qualunque, per gite scolastiche o per viaggi di svago. Personalmente sono favorevole a che questi luoghi siano visitati dal maggior numero di persone e che tutti possano visitarli, in modo rispettoso, ma anche per fare i criticatissimi “selfie”: sono un modo per “appropriarsi” di quei luoghi.
Il regista Sergei Loznitsa nel suo documentario Austerlitz fa un’operazione a metà strada tra il documentario e la performance artistica mostrando cosa succede in una giornata di sole nel campo di Sachsenhausen oggi, tra selfie e pranzi al sacco nel cortile. L’effetto è atroce perché nella mente del pubblico a quelle immagini si sovrappongono inevitabilmente quelle storiche. Dunque alla quotidianità attuale, quella fatta di visitatori a un monumento, viene abbinata una quotidianità – passata – fatta di morte. Ecco, forse è una denuncia di come la Shoah non debba diventare un monumento. Cosa ne pensa?
Penso che la memoria per sopravvivere possa e anzi debba entrare anche nelle forme moderne della vita quotidiana di ognuno, e in particolar modo delle giovani generazioni. Ci sono e ci devono essere tanti modi per affrontare ed appropriarsi della memoria di eventi traumatici come la Shoah, da quelli letterari, a quelli cinematografici – inclusi quelli comici, pensiamo a La vita è bella di Benigni o a Train de vie. Anche i selfie a mio avviso vanno autorizzati e non biasimati perché dobbiamo riconoscere che è difficile governare la memoria di quegli eventi e che ciascuno cerca di mediarla e di impossessarsene con i propri strumenti, probabilmente anche per “normalizzarla” e “neutralizzarla”, per inserirla in una normalità a cui sembra invece sfuggire. Se è un modo per avvicinarsi a quella memoria, a mio avviso si tratta comunque di un fatto positivo.
Memoria o storia per parlare di Shoah e quali differenze tra queste due parole?
Il discorso è complesso e richiederebbe molto tempo. In ogni caso si tratta di approcci molto diversi che in un certo senso andrebbero tenuti uniti. Da un lato l’approccio storico: razionale, documentato, costruito sulla conoscenza di eventi, attori storici, contesti, ricerca delle cause. Dall’altro la memoria come trasmissione del ricordo, che passa anche attraverso un approccio soggettivo, emotivo o almeno sentimentale, si nutre di affetti di trasmissione familiare, oppure inter-generazionale, ma anche di un calendario civile, di rituali, di commemoriazioni collettive. L’ideale sarebbe che la memoria, individuale e collettiva, si nutrisse di storia.
Il criticatissimo libro di Finkelstein sull’industria della Shoah pone una distinzione tra sterminio ebraico come fatto avvenuto nella seconda guerra mondiale e olocausto come sua rappresentazione ideologica. Cosa ne pensa e perché?
Certamente se pensiamo al significato etimologico del termine “Olocausto” esso attribuisce alla Shoah un valore sacrale e teleologico che è quello di un sacrificio, di una sorta di redenzione. Questo offre una lettura para-religiosa della Shoah che ne fa un evento simbolico de-storicizzato. La critica di Finkelstein, talora eccessiva, sottolinea gli aspetti strumentali della memoria della Shoah, specie di quella ebraica e in particolare di quella promossa dallo stato di Israele. Credo che al di là dei suoi eccessi richiamare l’attenzione sui rischi degli usi ideologici dell’Olocausto, sia un contributo interessante.
Ora che sono rimasti pochissimi testimoni, quali linguaggi andrebbero usati (o sarebbero efficaci) per parlare alle nuove generazioni e coinvolgerle nella salvaguardia, e quindi poi nella trasmissione, della memoria?
La Shoah è ormai uno degli eventi più studiati e più testimoniati della storia. Esistono biblioteche di opere storiche che ne offrono ricostruzioni diverse e centinaia di migliaia di ore di testimonianze registrate dei sopravvissuti o di testimoni. Dopo la loro scomparsa personalmente credo molto nella funzione del racconto, anche quello di fiction. Per questo ho curato di recente un’antologia, edita da Giuntina, 1938. Storia, racconto, memoria per la quale ho chiesto a un gruppo di storici e di scrittori di raccontare, a partire da documenti o eventi storici legati alla persecuzione antiebraica in Italia, storie di invenzione che mettesero i lettori in contatto con le vicende del 1938, delle sue coseguenze e dei suoi significati. Credo che oltre agli storici e ai testimoni, nella trasmissione della memoria conterà sempre di più, in modo virtuoso, il racconto come forma di immaginazione e comunicazione del passato.
Credo che sia molto più grave l’operazione di strumentalizzazione della Shoah a fini di lotta politica contemporanea, creando analogie che in realtà sono solo banalizzazioni della Shoah.