Perché la parola si definisce nel silenzio. Intervista all’autore
“E mi coprii i volti al soffio del silenzio”. Questa frase intitola il nuovo libro di Sergio Daniele Donati, avvocato milanese e insegnante di meditazione ebraica che indaga il tema del silenzio dando il suo contribuito alla collana “Accademia del silenzio” della casa editrice Mimesis.
“Questo taccuino vuole solamente essere una sorta di diario di viaggio. Un viaggio antico quanto l’Uomo e per ogni uomo possibile. Elaborando questo testo, ho cercato di esprimere il legame intimo nel pensiero ebraico tra silenzio e creazione, tra silenzio e intuizione, tra silenzio e meditazione ebraica”.
Così si legge nell’introduzione al libro che intende approfondire il significato del silenzio nel pensiero ebraico attraverso un percorso di coscienza profonda che unisca gli studi biblici alla realtà biografica dello scrittore. Questo percorso, a tratti contemplativo, viene realizzato attraverso un trattato combinato a brevi frasi poetiche proposte alla fine di ogni capitolo, per stimolare piccoli momenti di meditazione nella scrittura.
Il carattere autobiografico è molto importante, perché influisce sull’aspetto spirituale, come spiega Sergio Donati:
“Se non riusciamo a proiettare nella realtà biografica delle persone ciò che studiamo e teorizziamo, a cosa serve il nostro lavoro? A cosa serve meditare se poi non riesco a rivolgermi in modo diverso al prossimo? A cosa serve studiare Torah se questo non mi permette di rapportarmi in modo migliore col fratello, col vicino e con lo straniero?”.
Sono quesiti frequenti, così come sono costanti i riferimenti all’interno del testo a due figure fondamentali per l’autore: suo figlio Gabriel e il maestro Haim Baharier. “Ho trovato in entrambi lo stimolo iniziale per mettermi a scrivere”, racconta Donati, “Iniziare a scrivere ciò che si elabora personalmente non è un passaggio semplice perché il tema del silenzio può essere talvolta spaventevole. Confrontarsi con i grandi scrittori ebrei fa sentire piccoli, ma come insegna Baharier, questa piccolezza protegge e permette, se usata in modo creativo, ad affrontare la difficoltà. Lo studio dev’essere finalizzato ad una reazione spirituale, ma anche orizzontale, cioè nella relazione tra uomini: il maestro Baharier insegna che la costruzione dell’economia di giustizia è il fine del percorso identitario ebraico, descritto dalla Torah come possibile e sempre destinato alla relazione con l’altro da sé, sia nel rapporto creatura – Creatore sia tra le creature”.
Nel suo libro, infatti, si legge:
“Due volti, in particolare, accompagnano la mia penna. Il primo è quello del maestro Haim Baharier, i cui caldi silenzi, tanto quanto le sferzanti parole, ho imparato col tempo a far germogliare in me. Il secondo è di mio figlio Gabriel, che mentre scrivo ha undici anni. All’età di meno di due anni Gabriel, lo vedremo meglio in seguito, mi ha donato con una sola frase una grande lezione sul silenzio, sulla meditazione e sulla luce. Di questo gliene sarò eternamente grato.”
Le pagine si susseguono creando uno stato di attesa nel lettore, teso a scoprire le parole della lezione che Gabriel ha dato al padre, svelate verso la conclusione, al termine del capitolo sul profeta Elia.
“Spesso si dice superficialmente che sono i figli a essere in debito con i propri genitori ma non è così” – sostiene l’autore – “nella religione ebraica siamo noi genitori i primi ad avere obblighi nei confronti dei nostri figli, come quello di restituire loro un mondo migliore”.
Il silenzio
Esiste poi un rapporto intenso tra il silenzio e la tradizione ebraica che viene analizzato in diversi ambiti, dalla relazione tra ascolto e ritiro come terreno su cui svolgere percorsi spirituali, fino all’analisi etimologica: la parola silenzio in ebraico è definita da differenti radici. La prima è quella della parola Dom che indica il silenzio abissale, che precede la creazione ed è allo stesso tempo un silenzio spaventevole, non umano. Indica, cioè, la non conoscibilità di ciò che è stato prima della creazione, epoca muta, che non ci parla. Successivamente, questa parola femminilizzata, si trasforma in Demamà e diviene un silenzio nell’atto comunicativo, cioè un silenzio che comunica. Si tratta di quella voce di “silenzio sottile” in cui il profeta Elia riconosce la presenza divina e, appunto, si copre il volto.
“Gli ebrei hanno col silenzio lo stesso rapporto che gli eskimesi hanno con la neve, per loro elemento sacro e descritto da molti termini diversi”, racconta Donati. “Noi siamo il popolo della parola e del libro, ma nonostante questo, abbiamo sette modi diversi di pronunciare e di conseguenza interpretare il silenzio. Sarebbe più corretto, infatti, parlare dei silenzi nel pensiero ebraico, piuttosto che di silenzio. Ed è interessante questa pluralità perché il silenzio è la condizione della parola: sono uno la sorgente dell’altro, è un silenzio rappresentativo basato su una quasi assenza del Creatore che si ritira per concedere al creato il suo spazio vitale. Attenzione però a quel quasi: l’assenza del Creatore non può essere totale altrimenti Elia non potrebbe percepire la Sua Voce di silenzio”.
Impossibile parlare di tutti i silenzi: “Ho scelto di parlare di alcuni silenzi ma non di altri, tralasciando alcuni silenzi molto importanti come quello – orizzontale, tra esseri umani – dell’uomo nella Shoah. Sono elaborazioni che richiedono spazi e tempi specifici, che chissà, forse saranno oggetto di un altro libro”, dice l’autore, che sceglie di concludere l’intervista con una citazione da Stefan Zweig, perfetta per stimolare la riflessione:
“Fin qui sono ancora riuscito a renderle comprensibile tutto… forse soltanto perché fino a questo punto mi sono ancora capito da me…”
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Sergio Daniele Donati, “E mi coprii i volti al soffio del silenzio”, Mimesis – collana Accademia del silenzio, 5 euro
Ora di casa a Nairobi, collaboratore di JOI dai suoi primissimi giorni, è laureato in scienze politiche e specializzato in Cooperazione internazionale all’ISPI.
Il silenzio non sarebbe altro che la parola interpuntata da un palinsesto di gesti corpo – fonetci in cui la dicibilita’ si ombreggia piano, bel bello, dal contatto di pelle con altra pelle altrui, il quale si pronuncia, appunto, con la sillabicita’ di un silenzio siderale di uno, di un due di noi….
Interessante. Lo Shabbat, la Amidà. Nota etimologica da segnalare all’autore DUMB, è un esempio qualsisi del nesso linguistico ariosemitico, Bruno Di Porto