La maggior parte delle esperienze oniriche raccontate nella Torah ha valore positivo. Spesso Dio in persona si rivolge a un essere umano addormentato, scegliendo il sogno come strumento per comunicare con lui
Sognare è un’attività umana diffusa ma dai contorni incerti, offuscati dal fatto ovvio che il sogno – esperienza personalissima – una volta raccontato non è sogno in diretta, nel mentre del suo accadere, ma sogno riportato dopo, nel momento della veglia e con parole umane spesso incapaci di afferrare qualcosa che sta già dileguando alla memoria. È pratica ambigua e affascinante – e forse affascinante perché ambigua – che in molte civiltà ha a che fare con la religione e la magia, oppure con l’inconscio come voleva il più famoso e originale appassionato di sogni di tutti i tempi, nonché fondatore della psicanalisi.
Addentrarsi nel Tanakh alla ricerca dei sogni non è impresa semplice sia per l’eterogeneità dei testi che circa duemila anni fa sono stati riuniti in un canone ampio ma esclusivo della parola divinamente ispirata, sia perché i sogni qui raccontati sono numerosi e diversi. Quello che segue non è perciò un inventario, ma un abbozzo di distinzione tra alcune categorie di sogni biblici, senza alcuna pretesa di esaustività. Una prima distinzione può essere fatta tra sogni di valore positivo, di valore negativo e di valore nullo. Cominciamo dagli ultimi. Talvolta il sogno (chalom in ebraico) viene menzionato come immagine per eccellenza di ciò che è vuoto, effimero e fantasmatico, opposto in quanto tale a ciò che è reale, pratico e che conduce a conseguenze apprezzabili. Non di vero e proprio sogno si tratta dunque in questo caso, ma del ricorso al sogno per stabilire una equivalenza con qualcosa che è considerato di valore nullo o al massimo passeggero. Nel libro di Giobbe (20,4-8) uno dei cosiddetti amici del protagonista, Tsofar, esprime la propria facile filosofia, secondo cui da quando esiste l’uomo “il trionfo dei malvagi dura poco e la gioia dell’uomo depravato è momentanea […] come sogno (ka-chalom) vola via e più non si trova, sparisce come una visione notturna”. Il sogno, qui, è simbolo di ciò che sfugge e non rimane, dileguandosi senza lasciare tracce.
Altrove gli autori biblici invitano alla prudenza di fronte a sogni e sognatori. Il libro di Devarim/Deuteronomio è particolarmente sospettoso a riguardo. Uno dei discorsi ricorrenti in Devarim è l’immodificabilità delle prescrizioni date da Mosè in limine mortis al popolo di Israele in procinto di attraversare il Giordano e insediarsi nella terra di Canaan. Quello che oggi vi comando, ripete Mosè, lo osserverete e lo insegnerete di generazione in generazione senza togliere o aggiungere una sola virgola. Tra le prescrizioni troviamo anche il caso di “un profeta o un sognatore” che potrebbe mostrare un segno o un prodigio che effettivamente non tarda a realizzarsi (13,1-6). Anche in questo caso, secondo Mosè, prima di accettare l’autorità di costui bisogna fare attenzione a quello che il sogno (o la profezia) ha indicato. Se dice di seguire e adorare divinità diverse dal Dio di Israele (o in generale qualcosa di diverso dalla legge trasmessa da Mosè), quei sogni sono falsi anche se ciò che vagheggiano si è compirà puntualmente. Qui la falsità dei sogni non è data quindi dalla mancata realizzazione, ma dal fatto che i loro ispiratori sono menzogneri. Tanto è vero che non si mette in discussione che possano esistere sogni e profezie che anticipano il futuro, presagi dunque corretti, e ciononostante falsi in base al messaggio che portano. A suggello, Devarim prescrive la pena di morte per questi sognatori che seducono i figli di Israele sollecitandoli all’apostasia.
Nonostante sia opportuna una certa dose di attenzione per evitare l’inganno dei sogni falsi, la maggior parte delle esperienze oniriche raccontate nella Torah ha valore sicuramente positivo. Spesso Dio in persona si rivolge a un essere umano addormentato, scegliendo il sogno come strumento per comunicare con lui. In questi casi sceglie di manifestarsi indifferentemente sia a ebrei sia a non ebrei. Nel libro di Bereshit/Genesi (20,3-7) Dio compare in sogno al re di Gherar Avimelech per aiutarlo a scongiurare un pericoloso quiproquò. Il re cananeo si era infatti impossessato di Sarah – peraltro già in età avanzata – ritenendola sorella di Abramo, invece che sua moglie. Dio in sogno spiega ad Avimelech come stanno le cose, aggiungendo che poiché Sarah non è stata ancora toccata, restituendola farà in tempo a salvarsi dalla punizione. Appena sveglio Avimelech, pieno di paura, rispedisce la donna al legittimo marito. Un altro non ebreo che Dio visita durante il sonno è Balaam nel libro di Devarim/Numeri (22,9-20). Questa volta il sognatore è un mago precettato dal re di Moab affinché maledica il popolo di Israele durante gli anni di nomadismo nel deserto dopo l’esodo dall’Egitto. In sogno Dio spiega a Balaam che Israele va benedetto, non maledetto. Di fronte all’insistenza dei moabiti, Dio appare in sogno a Balaam una seconda volta, annunciando che il mago dovrà fare la sua volontà. Poiché Balaam la mattina seguente sella la sua asina e si mette ugualmente in cammino, Dio interverrà – come annunciato nel secondo sogno – per mutare magicamente le parole di maledizione in parole di benedizione, trasformando così un indovino straniero dalla condotta come minimo ambigua (ma la tradizione rabbinica saprà essere più severa) letteralmente in un profeta, qualcuno cioè che non parla per volontà propria ma presta voce al divino.
Dio si rivolge naturalmente anche alla discendenza di Abramo, per esempio a Yaakov (Giacobbe) dopo che questi, grazie a uno stratagemma di vera e propria magia imitativa, si è impossessato di gran parte dei nuovi nati delle greggi di Labano. Come ricompensa per il proficuo lavoro prestato Yaakov ha chiesto che gli vengano assegnate quelle pecore e capre che nascono punteggiate o striate, e l’astuto Labano – felice di cavarsela con così poco – ha prontamente accettato. A questo punto Yaakov ha collocato bastoncini con macchie e scorticature negli abbeveratoi degli animali, che tutti cominciano a partorire piccoli striati, punteggiati o macchiati per imitazione. Così Yaakov in pochi mesi si arricchisce a dismisura, suscitando l’ostilità dell’ambiguo padrone dal nome parlante, poiché “Labano”, in ebraico lavan, significa “bianco”. Nel capitolo successivo Bereshit racconta il sogno che segue questi fatti commentandoli e facendo capire a Yaakov il significato della sua stessa azione (31,11-13). È un passo che fornisce una interpretazione della vicenda e che per questo viene considerato probabilmente aggiunto in epoca tarda, o comunque dopo la stesura dell’episodio precedente. In alcuni frammenti trovati a Qumran è significativamente dislocato prima della divisione delle greggi, acquisendo così quel valore premonitore che dei sogni è tipico. Nel sogno, in ogni caso, un inviato di Dio invita Yaakov a riflettere sull’accaduto, collega i fatti con l’alleanza stabilita tra lui e il Signore a Betel e gli suggerisce di levare le tende al più presto, prima che Labano si arrabbi davvero. Il riferimento a Betel richiama un altro sogno famoso di Yaakov, quello della scala su cui gli angeli di Dio salgono e scendono. Anche in questo caso, come nel sogno delle greggi nel testo masoretico e in quello di Avimelech, l’esperienza onirica non annuncia nulla, non è insomma premonitrice, semmai commenta le vicende appena narrate aggiungendo elementi suggestivi.
I sogni biblici (veritieri) possono essere quindi distinti in successivi all’evento che commentano e anticipatori del futuro. Questi secondi, caratteristici anche di altre civiltà dell’antichità (lo storico greco Erodoto, per limitarsi a un esempio, ne racconta di meravigliosi), dischiudono qualcosa che non è ancora avvenuto. In questo caso il sogno è costituito da un sistema di segni che deve essere interpretato, sciolto, rivelato. Necessita, in altre parole, di una interpretazione e quindi di un interprete. Le funzioni del sognatore e dell’interprete possono coincidere nello stesso personaggio oppure essere distribuite a due personaggi distinti. A questo proposito non si può non richiamare la figura di Giuseppe, il sognatore biblico seriale per eccellenza. Giuseppe è definito baal ha-chalomot, “signore dei sogni” (Gn 37,19). Perché sogna come nessun altro mai, innanzitutto. Giuseppe però non sogna soltanto, ma interpreta anche tutto il materiale onirico su cui può mettere le mani, è perciò “signore dei sogni” nel senso che controlla i sogni, li domina. Per la verità all’inizio della storia – un vero, avvincente romanzo ellenistico in versione ebraica con intento edificante e lieto fine – sono i fratelli e il padre a interpretare i suoi sogni, il cui significato appare peraltro a prima vista immediato. Quando Giuseppe racconta il sogno dei covoni legati nel campo, con il proprio che svetta sopra quelli altrui, sono i fratelli a interpretare: “Sarai tu il nostro sovrano? Dominerai su di noi?”. Lo stesso accade quando l’avventato diciassettenne racconta al padre il sogno del sole, della luna e delle undici stelle “che si inchinano di fronte a me”: anche qui è il padre Yaakov a interpretare e a indignarsi per la sfrontatezza del figlio. Più avanti, come noto, il romanzo mostrerà che il sognatore è anche il più abile degli interpreti, e questa competenza assai richiesta gli frutta una brillante carriera politica. Il rovesciamento è così completo: da sognatore per questo motivo odiato a professionista dell’ermeneutica onirica premiato e infine in grado, grazie al successo conseguito, di beneficare l’intera famiglia e rappacificarsi con i fratelli. Per Filone di Alessandria la capacità di sognare e dominare i sogni fa di Giuseppe la figura esemplare del buon politico: sognare significa prevedere il futuro spingendosi oltre le immediate necessità del presente, per esempio pianificando la raccolta e la conservazione su larga scala del grano in vista di una futura congiuntura sfavorevole. Al di là della strabiliante parabola politica di Giuseppe, i simboli dei suoi sogni non potrebbero essere più tipici di una civiltà agricola: campi, covoni, luna sole e stelle, tralci di vite, mosche, pani, uccelli, vacche e spighe.
Almeno a Giuseppe i sogni vengono raccontati quando gli si chiede di leggere in essi il futuro. Nel libro di Daniele, al contrario, il malvagio re babilonese Nabucodonosor esige che gli sia fornita non solo la spiegazione del sogno che ha fatto, ma addirittura la descrizione del sogno stesso (2,3-13). La richiesta insolita ed enorme provoca lo sconcerto dei maghi di corte, secondo i quali “solo gli dei” possono arrivare a indovinare un sogno che non è stato condiviso, mentre “non esiste uomo al mondo che possa farlo”. Dopo che il re, adirato, ha ordinato di sterminare tutti i sapienti del regno, compare l’ebreo Daniele, unico a riuscire a svelare il sogno nascosto. Che naturalmente racchiude una visione del futuro.