Chi indossa una pettorina che riproduce quel triste pigiama che era la divisa eterna dei prigionieri dei lager non nega alcunché, se non la stessa veridicità storica, traducendola in un involucro da indossare a proprio beneficio
Ci risiamo. Ancora una volta le memorie della Shoah, ed ancora di più i suoi significati storici, destinati a costituire palestra di educazione civica nel senso più ampio del termine, vengono invece deliberatamente oltraggiati. Ci stiamo riferendo alla inaccettabile manifestazione dei cosiddetti «no vax» di Novara, dove alcuni partecipanti hanno indossato delle pettorine che riproducevano la tragica divisa dei deportati. A corredo di ciò, il filo spinato come “tema” di accompagnamento. Quale fosse il significato di un tale, abominevole, surreale, inverosimile accostamento tra il passato dei lager e il presente della pandemia, era chiaro prima ancora di leggere i cartelli esposti dai compiaciuti manifestanti: la condizione di chi rifiuta le misure di contenimento del Covid è omologabile a quella di coloro che subirono la deportazione e l’assassinio nei campi di concentramento e di sterminio nazisti.
Una simile mistificazione non è peraltro nuova. Semmai costituisce parte di un crescendo, che da tempo va manifestandosi. Coloro che rifiutano istericamente il vaccino o il green pass, appellandosi contro un’inesistente «dittatura sanitaria», blaterando quindi di «libertà» offese, di censure imposte, di «pensiero unico» che starebbero incapsulando la vita quotidiana di nazioni e popoli, non sono i primi a ricorrere alla retorica della ripugnante giustapposizione tra le persecuzioni nazifasciste e le difficoltà del tempo corrente. Con un capovolgimento di significati, un’inversione di ragioni, uno stravolgimento di gerarchie di senso che è, prima di tutto, uno schiaffo al principio di realtà.
Ciò che più offende, in fondo, non è solo l’evidente profanazione che è fatta di una memoria che – appartenendo invece sia alla autentiche vittime del passato come anche a chi ne affronta il ricordo con spirito critico e partecipe – dovrebbe, all’opposto, essere di tutti. Quanto più deturpa l’orizzonte del nostro sguardo è semmai la sua banalizzazione. Ed è banalizzante ciò che mette sulle stesso piano un’opinione (non accolta poiché infondata, nel caso degli antivaccinisti) ad un’azione (storicamente comprovata, la persecuzione e l’assassinio sistematici non solo degli oppositori ma anche di intere collettività squalificate e marchiate in termini razzistici). Crolla non solo il principio di realtà nel presente ma anche quello di veridicità e comprovabilità del passato. Si abbatte qualsiasi codice di significato condivisibile.
L’una cosa alimenta l’altra, in una sorta di catastrofe del pensiero. Se tutto si fa intercambiabile, se ogni cosa può essere sovrapposta ad un’altra, allora non esiste più nessuna gerarchia di senso. Neanche di valori e, quindi, di priorità. In una tale condizione anarchica, dove tutto diventa fosco, plumbeo, scontornato quindi cupo, a decidere per davvero cosa conta e cosa invece no, sarà solo chi ha più potere nei fatti. Quanti denunciano un’inesistente violazione dei diritti costituzionali, coloro che evocano per l’appunto una «dittatura sanitaria», sono servi, cantori, corifei e vessilliferi del potere del più forte. Attaccano una democrazia, basata sulla complessa mediazione tra interessi contrapposti, per lasciare libero il campo a chi, presentandosi come campione dell’individualismo egoistico e proprietario, è invece ben pronto a capitalizzare a suo beneficio il malessere dei tanti. Uno sguardo a quell’America che continua a seguire Donald Trump come a quel Brasile che ancora canta le lodi di Jair Bolsonaro, non a caso entrambi sospesi tra sottovalutazione, disinteresse o addirittura negazione della pandemia, forse aiuterebbe a meglio inquadrare i meccanismi di ciò a cui stiamo assistendo. Evitandoci facili e imbelli esecrazioni senza invece andare alla sostanza della questione, che chiama in causa sistematiche responsabilità e identifica precise colpe. In buona sostanza, allergici alla democrazia, nel nome di una anarco-individualismo che distrugge la tela della società così come della storia.
D’altro canto, nella condotta vittimistica di quanti si ritengono tali e quali ai deportati, non c’è alcun reale interesse verso la storia e, con essa, nei riguardi dei suoi tanti lasciti problematici. Piuttosto, c’è invece una rincorsa ad accaparrarsi l’investitura di martiri del tempo corrente e, come tali, di titolari di una coscienza morale e di una consapevolezza polemica e pseudo-critica molto più elevata del resto della popolazione. La quale, per il fatto stesso di essere invece attenta a rispettare i codici di condotta vigenti (a partire dalle norme di buonsenso) sarebbe invece non solo inconsapevole ma anche prona e china ai meccanismi dei «poteri forti». La vecchia, populistica e qualunquista polemica sul «popolo pecorone», tale in quanto rispettoso delle leggi, è da sempre polvere per i mortai degli squadristi del pensiero.
I «no vax», così come ciò che ruota attorno ad essi, con la loro imbarazzante prassi ricattatoria, adottano questo schema mentale, traducendolo in atti significativi sul piano delle rappresentazioni pubbliche, a partire dall’occupazione delle piazze. Sono pochi ma, nel loro costituire una minoranza rumorosa poiché sospesa tra parossismo e irrealtà, si sono candidati a costituire le soubrette di un desolato avanspettacolo, quello che cerca di raccogliere gli applausi di quel pubblico che è poco o nulla propenso al rispetto delle regole. Le loro tristi manifestazioni funzionano soprattutto per la visibilità che riescono a raccogliere: nel sistema della comunicazione permanente, della spettacolarizzazione continua, procura più interesse qualche decina di individui che si accomunano ai deportati che non i milioni di italiani che hanno ottemperato, anche nel caso delle vaccinazioni, a ciò che non è un obbligo collettivo bensì un diritto civile, quello alla salute. Ben sapendo che, tanto più durante una pandemia, il destino di ognuno di noi è intrecciato a quello altrui. Vaccinarsi è non solo un gesto di auto-preservazione ma anche, e prima di tutto, di cooperazione solidale. Non si tratta di essere buoni con gli “altri” ma di tutelare se stessi attraverso lo scambio con la società che ci circonda.
Non può quindi sorprendere se a cercare di gestire politicamente i ritorni di condotte e atteggiamenti eversivi, e quindi a indirizzarne i le possibili evoluzioni a venire, si siano inseriti sia i gruppi della destra radicale antisistema, illiberale e avversa alla democrazia, sia gli squallidi cascami di una qualche sinistra estrema, a partire dalla rottamatura di singoli ex brigatisti rossi: gli uni e gli altri sono infatti da sempre alla perenne ricerca di qualche “causa” alla quale accodarsi, a proprio beneficio, si intende. La strategia della provocazione gli è connaturata, che si tratti di assaltare la sede di un sindacato piuttosto che di rivestire i falsi panni di inesistenti deportati: senza di essa, le sue iperboli, le sue montature, le sue fumisterie, il suo ballon d’essai, non potrebbero nulla. Quanto meno, non raggiungerebbero il loro obiettivo, quello di rendersi visibili e, per tale ragione, oggetto di una qualche attenzione pubblica. Fingendosi oppositori di un «complotto» quando, invece, la loro autentica trama è quella che svolgono contro le democrazie, piegando a proprio beneficio ogni spazio di libertà di espressione e schiaffeggiando ciò che resta del buon senso.
Il meccanismo in opera in questo caso è quindi quello della colonizzazione di tutti i simbolismi che rimandano alla più grande tragedia del Novecento europeo. Come esiste una reductio ad hitlerum et ad nazium (la tattica argomentativa per la quale, volendo contrastare le tesi altrui, non se ne mette in discussione il merito ma si squalifica l’interlocutore comparandolo ad Hitler e ai nazisti), oramai si dà anche una reductio ad lager et iudaeorum. In questo secondo caso, ci si infischia della realtà storica (che è cosa a sé rispetto alla «verità» che essa ci consegna, soprattutto se quest’ultima è giudizio di valore), usandola tuttavia in una sorta di gioco abissale, di buco nero della coscienza, nel quale casca ogni residua capacità di interlocuzione e scambio. Gli ebrei sono “necessari” quando possono essere utilizzati strumentalmente come paradigma della sofferenza universale. Non c’è alcun interesse per ciò che hanno subito per davvero (la cui rilevanza, all’occorrenza, può anche essere negata) mentre importa il piegarne il simbolismo a proprio beneficio. Negazione e strumentalizzazione, rimozione e manipolazione, sublimazione e traslazione sono criteri mentali, prima ancora che politici, i quali possono benissimo operare al medesimo tempo. L’uso volutamente incauto della memoria pubblica – peraltro – si presta molto agli stravolgimenti, come quello al quale abbiamo assistito a Novara.
Costoro, beninteso, non sono per nulla ignoranti: cerchiamo, una volta tanto, di sgombrare il campo dall’equivoco tardo-illuminista per cui il sapere sarebbe l’unica chiave per sconfiggere l’oscurità delle perversioni ideologiche, delle false credenze, degli inganni, delle mistificazioni e delle superstizioni. La ragione non si sorregge mai da sé, con la sua evidenza, ma grazie ad un patto civile e sociale che ne intenda diffondere e consolidare le sue evoluzioni. Si tratta di un impegno pressoché quotidiano, mai raggiunto e soddisfatto una volta per sempre poiché gli ambiti sui quali va verificato sono dei terreni di sfida sempre aperti. Chi indossa una pettorina che riproduce quel triste pigiama che era la divisa eterna dei prigionieri dei lager non nega alcunché, se non la stessa veridicità storica, traducendola in un involucro da indossare a proprio beneficio. Negazione e stravolgimento si tengono sempre a braccetto. Non occorre, quindi, porsi troppi interrogativi né, tanto meno, rimanere sempre sconvolti o esterrefatti dalla macchina delle mistificazioni, che opera incessantemente, giorno e notte. Gli squadristi della memoria sono nemici della democrazia. Non si riparte da ciò che loro negano – la democrazia medesima – ma da quanto noi democratici possiamo tornare a riaffermare con forza. Tutto il resto, francamente, è solo un già, visto, un già detto, un già sentito.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.