Viaggio alle origini dell’organizzazione fondamentalista
Se è vero che non pochi palestinesi non si riconoscono in Hamas, distinzione che va quindi mantenuta, è non meno vero che Hamas ambisce a rappresentarli tutti, prima o poi, con le buone così come con la forza. Per capire quindi cosa sia una tale organizzazione, prima ancora di addentrarsi nel suo specifico, occorre porre alcune premesse di ordine storico. La prima di esse è che costituisce un protagonista significativo del circuito di organizzazioni che, a fare dagli anni Settanta, in Medio Oriente, e non solo, hanno avviato un processo di progressiva de-secolarizzazione delle società locali, di fatto sostituendosi alle altrimenti declinanti opzioni politiche (dal panarabismo al nazionalismo, dal comunismo alle idee di palingenesi terzomondiste) che, dalla decolonizzazione in poi, avevano contribuito ai processi di costruzione di incerte identità nazionali. Un tale fenomeno risulta tanto più accentuato laddove non si è raggiunto il traguardo di uno Stato indipendente, come per l’appunto nel caso palestinese. Un secondo fattore ad alta incidenza è la rilevante ricaduta della religiosità islamica come fattore di coesione sociale, ossia di costruzione e persistente rigenerazione di un tessuto civile connettivo, fatto di simboli, valori, idee come anche condotte, sotto un unico denominatore. Un terzo aspetto è la scarsa – o diversa – presa dello «Stato» in Medio Oriente, quand’esso sia inteso come espressione di interessi collettivi, quindi titolare di un’unica e insindacabile sovranità, di un’incontrovertibile grado di legittimazione, nonché depositario di un’idea universalista della cittadinanza.
I questa analisi vanno poi considerati i passaggi storicamente più significativi: tra il 1978 e il 1979 il khomeinismo vince in Iran; l’Afghanistan, in quello stesso arco di tempo conosce l’invasione sovietica a causa delle pressioni islamiste; tra il 1992 e il 2002 si svolge la sanguinosa guerra civile algerina. Solo per riportare alcuni tra gli esempi più significativi. La cornice internazionale è comunemente segnata dall’affermazione di soggetti il cui comune denominatore è il rimando al fondamentalismo religioso, sia come matrice identitaria che come progetto di riorganizzazione delle società che ne sono coinvolte.
Anche nei Territori palestinesi, non meno che nei paesi arabi, per tutti gli anni Ottanta e Novanta andò quindi misurandosi la crescita dei movimenti islamisti. Si tratta di organizzazioni paramilitari di massa, con un buon radicamento sociale in quanto capaci di costruire, laddove si andavano radicando, sistemi a rete di welfare state, ma dotate di una fondamentale componente terroristica, usata non solo in funzione operativa bensì come strumento di reclutamento. Tali soggetti, progressivamente, si sono posti in concorrenza con le strutture tradizionali dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina che fu di Yasser Arafat ed oggi di Mahmud Abbas, conosciuto anche come Abu Mazen). Arrivando a surclassarla, di fatto sostituendosi ad essa. Sia con le elezioni legislative del 2006, che costituiscono a tutt’oggi la consacrazione politica di Hamas, sia con la successiva estromissione dei quadri istituzionali di Fatah e dell’Olp dal residuo controllo politico della Striscia di Gaza, anche a seguito di un violento scontro armato e di disordini civili.
Ciò facendo, Hamas è riuscito ad ottenere il consenso di una parte delle società locali, raccogliendo un discreto numero di aderenti e poi un solido seguito elettorale. La posta in gioco, sulla quale le organizzazioni fondamentaliste hanno costruito il loro seguito è la «riconquista della Palestina», intesa «usurpazione storica», contro la quale ogni «buon musulmano» deve adoperarsi; mezzo nella misura in cui costituisce solo un passaggio nella contrapposizione universale tra la fede e la miscredenza, tra l’«ordine» e il «caos», tra l’Islam e gli infedeli, quindi tra la pace e la guerra. La contrapposizione è quindi jihad («sforzo», «lotta»), commistione tra testimonianza di fede e combattimento attivo, quest’ultimo per mezzo del ricorso alle armi. La «resistenza all’occupante sionista» diventa così un obbligo individuale le cui radici stanno dentro una religione comunitaria, collettiva, che determina appartenenze ed esclusioni, identificazioni e rifiuti, condivisioni, reciprocità, solidarietà così come avversioni. Un obbligo, quello del jihad, al quale nessuno può sottrarsi, a meno di non compiere atto di apostasia. Il pogrom avviato il 7 ottobre, e durato anche nei giorni successivi, ai danni della popolazione israeliana, si inscrive in questo orizzonte ideologico e di senso.
In questo ricostruzione ideologica il «sionismo» è l’insieme delle forze del male contro le quali i credenti sono chiamati a lottare. Liberare la «Palestina», ossia reislamizzarla espellendo i «sionisti», ossia gli ebrei tout court, che verranno «buttati a mare», è l’atto più importante nella lotta mondiale per affermare le verità di cui si è fatto portatore il Profeta. Ancora una volta, si è musulmani nella misura in cui si adempie all’«obbligo nascosto» del jihad per la Palestina. Secondo gli esponenti del radicalismo islamico, infatti, costituirebbe il sesto tra i «pilastri dell’Islam» (Arkàn al-Islàm), ovvero degli obblighi imprescindibili, insieme alla professione di fede (Shahada), le preghiere rituali (Salat o Naamaz), al pagamento della decima per i poveri (Zakat), il digiuno durante il mese di Ramadan (Sawn o Siyam) e al pellegrinaggio alla Mecca (Hajj). A questi presupposti si rifanno tutte le organizzazioni dell’estremismo islamico ed in particolare quelle che hanno il loro radicamento nei Territori palestinesi e nei paesi vicini. Nel primo caso si ha a che fare per l’appunto con Hamas («ardore», ma il termine è anche acronimo di Harakat al-Muqawama al-Islamiya, «Movimento di resistenza islamica») e con Jihad islamico, che ha recitato un ruolo nei fatti del 7 ottobre; nel secondo con Hezbollah (il «partito di Dio»).
Hamas è nata come costola dei Fratelli musulmani egiziani nel 1978, a Gaza, quando viene istituita la prima organizzazione non governativa che si occupa di attività sociali, da dove inizia un’opera di lenta ma costante penetrazione all’interno della società palestinese. In un primo tempo non si presenta come movimento politico bensì come insieme di strutture volte ad riorganizzare la comunità locale secondo i precetti islamici. Da ciò deriva la sua forza originaria, essendosi proposta innanzitutto come rete di supporto, di sostegno e soddisfacimento dei bisogni quotidiani della collettività locale, attraverso l’offerta in campo educativo (scuole e università), sanitario (ambulatori e ospedali), religioso (moschee), sociale (luoghi di aggregazione) e così via. Così facendo, tuttavia, ben presto si pone in attrito con le rappresentanze territoriali dell’Olp e delle organizzazioni politiche palestinesi di matrice laica. Israele, in un primo tempo, osserva con calcolata indifferenza quanto va avvenendo. La convinzione di fondo è che in tale modo, l’allora preponderante presenza delle formazioni politiche secolarizzate, all’epoca assai più bellicose, potesse essere ridimensionata, almeno in parte. È però nel 1987, con la prima intifadah, che Hamas emerge in quanto movimento politico. Il salto di qualità avviene sulla base della politicizzazione del discorso islamico. Dalla predicazione, dall’assistenza materiale e morale, si passa così alla milizia radicale. Si sostiene che nessuna liberazione potrà essere tale finché la «sacra terra di Palestina» sarà «occupata dall’usurpatore sionista». La spaccatura si consuma soprattutto in seno al mondo palestinese, sulla scorta della «Dichiarazione di Algeri» del 1988, quando l’Olp riconosce la necessità di una negoziazione con Israele sulla base delle Risoluzioni 242 e 338 delle Nazioni Unite. Hamas si candida a raccogliere quanti non sono disposti a sottoscrivere la nuova politica di Arafat, contendendo a quest’ultimo la gestione della ribellione palestinese. In realtà buona parte delle fortune del movimento islamista sono legate all’incerto andamento dei negoziati di pace, dai cui difficili esiti ricava credibilità per sé e motivazioni per il prosieguo della lotta. Rispetto all’Olp si differenzia fin da subito costruendo una struttura a rete, articolata nei Territori, di cui ne contende sempre più spesso il controllo. Finanziariamente si può basare sul sostegno di robusti sostenitori interni a Gaza e Cisgiordania come esterni, in particolare dall’Arabia Saudita, dal Kuwait, dall’Iran dal Qatar così come dagli Stati Uniti e dall’Europa.
Il circuito è, ancora una volta quello delle associazioni caritatevoli. Se nei Territori esse hanno un duplice volto, svolgendo sia l’attività per le quali dichiarano di esistere (di fatto l’assistenza sociale in un contesto dove l’offerta pubblica è inesistente) sia quella di reclutamento e formazione politica, all’esterno sono una rete attraverso la quale scorre il denaro che serve ai più svariati utilizzi, non da ultimo quello terroristico. Segnatamente, la forza del terrorismo islamico sta anche in questo aspetto, ovvero di presentarsi come una componente indistinguibile dal milieu solidaristico delle organizzazioni che operano tra le comunità musulmane con finalità lecite o, comunque, riconosciute e tollerate. Per colpire a fondo il primo bisognerebbe distruggere le seconde, con prevedibili effetti sul piano dei già precari equilibri sociali ed economici di tali popolazioni. Nel lasso di tempo che sta tra la morte di Anwar el Sadat e la prima intifadah Hamas si dota di una sua struttura militare, con una doppia funzionalità: controllare dall’interno la comunità palestinese e colpire gli israeliani. A partire dal 1992 è alle Brigate di ‘Izz al-Din al-Qassam che viene delegato il compito di eseguire gli attentati e di mantenere alto il livello di tensione terroristica, dentro e fuori i Territori.
Dopo gli accordi di Oslo del 1993 e nel prosieguo del processo di pace la posizione di Hamas si presenta infine come paladina dell’ortodossia anti-israeliana. Israele è peraltro ricondotto agli ebrei. Sul piano ideologico è quest’ultima la vera radice del movimento, conducendo una guerra di natura religiosa, senza spazio alcuno per il compromesso. Sul piano più propriamente politico Hamas deve tuttavia confrontarsi con l’evoluzione della situazione e con gli effetti degli accordi tra la costituenda Autorità nazionale palestinese e Israele. La caratteristica di Hamas è di essere comunque un movimento anche nazionalista. L’appello all’umma, ai valori transnazionali dell’islamismo si contempera al richiamo ad una “Palestina palestinese”. Da ciò deriva la difficile mediazione tra spinte radicali e realismo politico, tradottasi nel tentativo, a lungo ripetuto, di rigettare qualsiasi ipotesi di mediazione con Israele insieme alla necessità di tenere un rapporto residuo con gli uomini di Abu Mazen. La progressiva decadenza dell’Autorità nazionale palestinese al partire dal 2000, tra corruzione, nepotismi e affarismo, ha infine indotto Hamas a rompere gli indugi, prima “liberandosi” della sua presenza nella Striscia di Gaza (abbandonata da Israele nel 2005), poi avviando un’intensa attività di penetrazione in Cisgiordania. La tragedia del 7 ottobre 2023, non a caso, si inserisce anche in un tale quadro, sul quale ritorneremo a breve, soffermandoci anche su ulteriori aspetti di Hamas medesimo.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.