Analisi del metodo storico, tra errori, pregiudizi e luoghi comuni
Quando si parla di deportazione di ebrei nel tempo della Repubblica sociale italiana e dell’occupazione (1943-1945) è imprescindibile partire dalle ricerche che Liliana Picciotto ha condotto almeno a partire dalla metà degli anni ’80.
Nell’ultimo suo studio dedicato alle dinamiche che conducono al “Sabato nero” ovvero alla razzia del ghetto di Roma del 16 ottobre 1943 (The Decision-Making Process of the Roundup of the Jews of Rome (October 1943), uscito nell’ultimo numero di “Yad Vashem Studies”), Picciotto torna a riflettere su quella scena mettendo l’accento appunto sui molti punti ancora non chiari di quella giornata, ma anche sugli antefatti che definiscono la complessità di quella scena (non ultime le questioni afferenti il comportamento del Vaticano e di cui l’apertura degli archivi vaticani lo scorso 2 marzo sulle carte ancora segretate del pontificato di Pio XII potrebbe aiutare a sciogliere).
Perché è importante sottolinearlo? Perché la tentazione di descrivere sommariamente i fatti della storia, è sempre forte e solo il lavoro minuzioso di verifica ci avvicina a come “i fatti andarono”.
Non è la prima volta che Liliana Picciotto propone scavi su quello che riteniamo “saputo” per condurre noi lettori a riconsiderare con maggior precisione la scena della storia. Per molti aspetti se oggi discutiamo di responsabilità italiana lo si deve alle sue ricerche. Lo ricorda Michele Sarfatti a pagina 89 del suo nuovo libro uscito in questi giorni (Il cielo sereno e l’ombra della Shoah, Viella Editrice).
L’episodio potrebbe apparire un aneddoto per curiosi, se non fosse che quell’occasione rappresentò la rottura di una delle tante versioni del luogo comune, a lungo coltivato, del “cattivo tedesco” e del “bravo italiano” (per riprendere il titolo di un libro dello storico Filippo Focardi, uscito nel 2013 per Laterza) e del fascismo italiano come non responsabile e fuori dal “cono d’ombra” dello sterminio , avrebbe detto lo storico Renzo De Felice ancora nel dicembre 1987.
Di luoghi comuni e di “mezze verità”, o di conclusioni affrettate che costituiscono il sapere diffuso sul tema della Shoah e dell’antisemitismo nella storia dell’Italia fascista, Michele Sarfatti in questo suo libro ne propone molti (sui salvati; sul rapporto tra intellettuali e regime nel cantiere di costruzione della legislazione razziale; sulle analogie, le distanze e le differenze tra “razzismo anticamita” ovvero rivolto contro le popolazioni africane delle colonie e l’antisemitismo; sulla dimensione estranea, del tutto artificiosa (o meno) della legislazione del 1938 rispetto al paradigma culturale italiano consolidato, tanto per citarne alcuni.
Un testo, Il cielo sereno e l’ombra della Shoah, tanto corto, quanto denso e che sarebbe bene leggere anche molto oltre il tema specifico di indagine e di lavoro posto al centro del libro.
C’è un uso improprio della storia e delle scene del passato che anziché farci capire di più del nostro presente indica l’uso politico che facciamo della storia, e spesso, anche la dimensione pigra e controvoglia che caratterizza la nostra “sete di passato” facendo finta di essere senza pregiudizio, interessati a sapere come le cose andarono per davvero.
Perché capita?
Perché scavare nel passato, avendo fissi gli occhi al tempo presente (condizione che non è un vizio di questo nostro tempo) deve rispondere a molte domande, ma non sempre volte a sapere come la storia è andata per davvero.
Perché scoprire come è andata, rimette in discussione molti e confortanti luoghi comuni che ci tranquillizzano nel presente e mette in guardia da prendere per definitive le versioni consolidate di narrazione del passato, anche quelle accreditate da certa ricerca storica.
Dunque il tema e la procedura si riassumono nel riprendere in mano una scena, scomporla, vederne gli elementi costituenti, cogliere i passaggi non chiari di come l’abbiamo memorizzata e successivamente, anche in forza della ricerca storica e archivistica, ricostruita e proposta alla pubblica opinione, tanto da essere assunto in quella versione come «il sugo della storia», e tornare invece a smontarla, mostrando quanta porzione di «non detto», di «non risolto», in breve di «oscuro» rimanga ancora sul terreno.
Operazione che chiede una pazienza filologica, una preparazione documentaria e una padronanza di mestiere non indifferente, ma anche che implica un confronto pacato, ma fermo, con i molti luoghi comuni che popolano e il nostro sapere diffuso, spesso il senso comune.
Non vale solo per l’antisemitismo nella storia italiana. Vale per molti altri temi.
Alcuni, opportunamente si annunciano come prossime uscite nella collana in cui compare il libro di Michele Sarfatti. Collana diretta dallo storico Fulvio Cammarano e che ha per titolo significativo “L’antidoto”.
E tuttavia la riflessione sulla storia non riguarda solo una scelta oculata e appropriata di temi da approfondire, intorno a cui tornare a scavare e così proporre una riflessione informata sui vizi dei nostri comuni.
Si potrebbe anche aggiungere che questo viaggio periodico intorno ai luoghi comuni – che spesso sono un prendere atto della inconsistenza e nonché della pericolosità di molta parte dei nostri “luoghi comuni” non costituisce una provocazione, ma è parte strutturale del mestiere di storico, una volta che si riconosca tanto dai lettori, come dagli storici stessi (una categoria che non è priva di luoghi comuni e che soprattutto, con non poca difficoltà prende consapevolezza dei propri, e quandanche ne prenda consapevolezza, con ulteriore ritrosia intraprende un viaggio di revisione).
Molto tempo fa, quando in Europa tirava aria di guerra, Marc Bloch si domandò che cosa chiedere alla storia. Era il titolo di una conferenza che tenne nel 1937 al Centre polytechnicien d’études écomomiques, davanti a una platea d’intellettuali e di professionisti che non avevano una formazione professionale da storici, ma che avvertivano profondamente il valore dell’impegno civile per una cultura che indagasse il tempo presente e perciò, fosse capace con metodo di scavare nel passato.
La convinzione era, e Marc Bloch la condivideva, che solo partendo dal presente si poteva cercare di illuminare il senso della ricerca verso il passato.
Era una domanda che sarebbe tornata anche in un altro tempo della sua vita, quando in clandestinità, comunque costretto a nascondersi e a firmarsi M. Fougère per tentare di non essere preso e deportato perché ebreo, iniziò a scrivere L’apologia della storia o mestiere di storico (Einaudi) quello che poi è rimasto, almeno fino ad oggi, uno dei libro fondamentali per la formazione non solo professionale, ma soprattutto civile tanto per gli storici come per i lettori affascinati dal racconto storico. Quel testo si avvia a partire da una domanda che lo riguarda sia come storico, sia come cittadino. La riporto qui: “Ogni volta che le nostre tristi società in perpetua crisi di sviluppo, prendono a dubitare di se stesse, paiono domandarsi se abbiano avuto ragione di interrogare il loro passato, o se lo abbiano interrogato bene”.
All’inizio del 1938, nel pieno della crisi politica profonda – un tempo in cui i totalitarismi mostravano tutta la potenza e le democrazie tutta la loro debolezza e dove non pochi si chiedevano se non fosse il caso di concludere che il futuro possibile fosse nel trionfo definitivo dei totalitarismi – con quel testo che ha che ha per titolo Que demander à l’hstoire (lett. Che cosa chiedere alla storia), Bloch dunque partiva dalle incertezze del presente, dalle presunzioni di sapere nel presente che cosa era accaduto nel passato, dell’accontentarsi di facili risposte confortanti, per andare invece nel passato, scavare ancora e mostrare contemporaneamente come si erano svolti i fatti e che cosa quello svolgimento metteva in chiaro dei vizi, più che delle virtù, del fare storia nel tempo presente, facendo conto di riscostruire con parzialità la scena di quel passato.
Perché è importante ricordare questo passaggio?
Perché a me non sembra che siamo in un tempo diverso e, soprattutto, non siamo alieni dagli stessi errori o dalle stesse insufficienze che segnava Bloch.
Anche per questo è molto significativa non solo la pubblicazione del libro di Michele Sarfatti ma la linea editoriale proposta nella collana, nonché i titoli annunciati in preparazione.
Classe 1955, nato e cresciuto a Livorno, studia a Pisa dove inizia la facoltà di Filosofia, ma si innamora di quella di Storia. Ha insegnato al liceo e all’università, da anni lavora alla Fondazione Feltrinelli in quanto Direttore dei contenuti editoriali. Si definisce uno storico sociale delle idee (ci ha assicurato essere una vera specialità, benché nessuno finora abbia capito cosa sia). Scrittore e giornalista, dicono che il suo branzino al sale sia leggendario.
Siamo stati consezienti col regime fascista in larga parte connivente e convivente, attraverso scambi di interesse economici e di posizione sociale. Il dissenso era limitato e perseguito militatarmente anche da un doppiogiochismo diffuso. La resistenza fu una minoranza, anche se le minoranze, in generale, sono leve politiche di rinnovamento….