Almeno il 10% dei combattenti dei gruppi di resistenza era donna. Una raccolta di testimonianze
Ci sono state volte dove dovevamo attraversare dei binari, e ci sparavano da ogni lato. Non abbassavo neanche la testa – non ero preoccupata mi uccidessero. Se fossi dovuta morire, sarei morta come combattente, e non perché sono un’ebrea (Sonia Orbuch).
Sono sei donne, inclusa la Orbuch, a raccontare la propria esperienza di sonne partigiane ebree in un vdeo della Jewish Partisan Education Foundation: Eta Wrobel, Sonia Orbuch, Brenda Senders, Gertrude Boyarski, Mira Shelub, Vitka Kempner. Durante la II Guerra mondiale, circa trenta mila ebrei ed ebree riuscirono a scappare dai ghetti e dai campi per formare gruppi di resistenza. Tra tanti uomini, almeno il 10% dei combattenti era donna. Nella rivolta del ghetto di Varsavia, almeno 1/3 dei 750 giovani in rivolta furono donne ebree.
Le partigiane ebree coprirono diverse funzioni – combattenti attive, infermiere, mediatrici tra gruppi di resistenza trasportando armi e informazioni. Alcune donne operarono nei ghetti, altre si unirono ai gruppi di resistenza nei boschi. Altre operarono dall’estero per aiutare altri ebrei ed ebree a fuggire dai territori occupati.
Il libro “The Light of Days” di Judy Batalion è dedicato alla storia delle donne polacche nella Resistenza. Batalion scoprì un manoscritto in Yiddish alla British Library di Londra intitolato “Le donne del Ghetto” completamente dedicato al ruolo delle donne nel sabotaggio di operazioni, esplosioni, e deragliamenti. In particolare, l’autrice sottolinea come nella Polonia degli anni ’30 le donne ebree ricoprirono una funzione chiave nella resistenza per la loro capacità di ‘camuffamento’ nella società polacca. Le donne ebree erano solite frequentare le scuole pubbliche polacche (mentre i figli maschi venivano istruiti in scuole private) ed erano quindi a conoscenza delle usanze culturali dei polacchi non ebrei. Nelle scuole imparavano le basi della chimica, per poi usare questa conoscenza per costruire delle bombe con la polvere di carbone.
Un articolo del Jewish Women’s Archive analizza la presenza di diverse donne nei movimenti di resistenza da una prospettiva storica: la leadership femminile si era formata già nei movimenti giovanili ebraici rivoluzionari di fine ‘800, solitamente di stampo socialista e comunista: ad esmepio, Vera Figner (1852-1942) fu a capo del movimento Narodnik in Russia, Vera Zasulich (1849-1919) viene ricordata nel movimento anarchico russo, l’anarchica statunitense Emma Goldman, e molte altre.
Donne che fecero esplodere centrali elettriche tedesche (Vitka Kempner), donne che rischiarono la loro vita per fotografare gli orrori nazisti (Faye Schulman), donne che con della vodka sterilizzarono le ferite dei loro compagni e delle loro compagni (Dora Oltulski). Le donne ebree della resistenza sono state memorializzate in diversi modi e molti archivi ne ricordano le storie: la “Jewish Partisans Educational Foundation” offre una sezione interamente dedicata alle donne partigiane, includendo due interessanti documentari; così come diverse sezioni del Jewish Women’s Archive – in particolare la sezione sulle donne polacche.
Al sito dell’Holocaust Center del Wagner College troviamo una sezione dedicata alle biografie di partigiane ebree. Viene riportata ad esempio la storia di Hannah Sanesh, torturata dalle forze ungheresi e uccisa all’età di 23 anni; o di Zivia Libetkin, protagonista della rivolta del ghetto di Varsavia, di cui riportiamo il suo discorso pronunciato al processo ad Adolf Eichmann.
“Sarebbe sbagliato, dolorosamente sbagliato, assumere che la resistenza mostrata dai giovani durante i giorni tempestosi della Distruzione fu la reazione di alcuni individui solamente – di un Yitzchak, di una Zivia, di Mordechai, o Frumka. Il nostro destino sarebbe stato molto diverso se non fossimo stati membri di un movimento… Siamo stati in grado di sopravvivere alla vita nel ghetto perché sapevano di essere un collettivo, un movimento. Ognuno di noi sapeva che lui o lei non era da solo.. che il sentimento di una comunità, di persone che ci tenevano l’una all’altra, che condividono valori, ha reso possibile per ognuno di noi di fare ciò ognuno ha poi fatto. Questa era la fonte della nostra forza. È la stessa fonte che tiene in vita i sopravvissuti”.
Bellissimo articolo. Grazie.