Di fatto l’ebraismo italiano, dall’Ottocento in poi, ha avviato un lungo processo di ridefinizione delle proprie prerogative. Un cammino che non si è risolto ancora ad oggi…
«Qualunque aggregazione di uomini voglia, compatibilmente colla morale e colle leggi, serbarsi una distinzione nominale, deve raccogliersi sotto un simbolo ed una bandiera sola. Ma questo simbolo però non deve essere né ostile né contrario a quello della società comune. Quindi egli non può essere composto di particolari affetti né di particolari speranze; perché tutti i palpiti del cuore ed ogni moto della mente si debbono alla patria comune; non può essere nutrito di esclusive memorie avite o di pretensioni di sangue, perché il retaggio di famiglia deve cedere, confondendosi, al grande retaggio della patria». Così scriveva Giuseppe Levi in «L’ebreo del passato e l’ebreo del presente», sul mensile «L’educatore israelita» nell’oramai lontano 1860.
Certo, parole onnicomprensive e dalle tante accezioni possibili come «popolo», «patria», «nazione» ma anche «sangue» e quant’altro, vanno sempre contestualizzate rispetto all’epoca in cui erano richiamate, così come anche alle intenzioni di chi le andava pronunciando. Benché la facile equazione tra ebrei italiani e liberalismo tra Ottocento e primo Novecento sia non priva di alcune insidie interpretative, è tuttavia non meno vero che già prima dei processi di emancipazione giuridica e sociale che interessarono l’Italia nel XIX secolo – e che portarono poi allo Statuto albertino, così come alla sua successiva applicazione sull’intera Penisola dopo l’Unificazione – il nesso tra parificazione dei diritti e fedeltà istituzionale fu vissuto da molti ebrei italiani come un dato incontrovertibile. Come tale, costituiva un aspetto della propria identità più profonda. Non era solo una logica di scambio (libertà di contro a lealtà) ma una potente integrazione al tema dell’«identità». Il superamento del regime di interdizioni legali appariva ai molti come il completamento di quel processo, già preconizzato dall’illuminismo ebraico, l’Haskalah, in ragione del quale la liberazione degli ebrei dalla condizione di ingiusta sudditanza dipendesse non solo dalla trasformazione delle credenze popolari radicate, quelle pregiudiziose, ma anche dallo scioglimento dai vincoli formali, sanciti dalle legislazioni, che impedivano un altrimenti più che legittimo riconoscimento del ruolo sociale che gli ebrei andavano concretamente assumendo nelle società occidentali.
L’accesso ai ruoli istituzionali, con la loro liberalizzazione, a partire dalle pubbliche amministrazioni centralizzate e dalla stessa militanza politica, si riflesse inevitabilmente anche sulle identità individuali e di gruppo, in una sorta di scambio reciproco: gli ebrei divenivano parte attiva dello Stato unitario ma quest’ultimo interveniva, ancorché indirettamente e non in misura necessariamente intenzionale, nelle dinamiche comunitarie. Ai processi di marcata secolarizzazione, che nel caso ebraico comportavano la crescente limitazione della propria ebraicità alla sfera confessionale («israelita», di «confessione mosaica»), quindi di natura privatistica, si accompagnavano quelli di integrazione nel tessuto sociale collettivo, di «nazionalizzazione», ovvero di adesione al sistema di valori dominante, soprattutto con il superamento generazionale delle vecchie forme di appartenenza strettamente comunitaria.
Lo Stato contemporaneo, infatti, nel suo esercizio di sovranità e nel suo patto di cittadinanza, riconosceva il diritto di manifestare pubblicamente i propri convincimenti personali ma sanzionava l’inaccettabilità di lealtà di gruppo che potessero pregiudicarne la sua insindacabile primazia. Di fatto l’ebraismo italiano, dall’Ottocento in poi, avviò quindi un lungo processo di ridefinizione delle proprie prerogative. Un cammino che non si è risolto ancora ad oggi. Da un lato furono accentutate quelle dinamiche sospese tra domesticità, associazionismo e religiosità (il «Tempio») che non entravano in attrito con le richieste e le aspettative dell’autorità pubblica. Dall’altro, i rimandi all’etnicità o ad un’identità diasporica che costituisse – almeno in ipotesi – un’appartenenza non solo ideale e morale ma anche civile, e magari politica, si stemperarono al punto da annullarsi in più casi. Va detto, a margine di queste riflessioni, che solo a partire dagli anni Ottanta del Novecento il dibattito su questo secondo passaggio avrebbe ripreso vigore, sollecitato dal più ampio mutamento delle culture politiche collettive, dalla conclusione della lunghissima stagione che si era iniziata con il secondo dopoguerra non meno che integrato dalla rinnovata centralità della presenza dello Stato d’Israele, e dagli spettri del trascorso sterminio nazista, nella coscienza ebraica. Il risultato del lungo processo di mutamento ottocentesco – che peraltro non interessò solo gli ebrei, trattandosi semmai del percorso attraverso il quale si definiscono storicamente le moderne identità nazionali – fu quindi la forte enfatizzazione dell’aspetto individualista e, in sincronia, una riduzione del ruolo e del peso degli organismi e delle figure comunitarie.
In altre parole, se la Nazione si sostituiva alla comunità, l’individuo sopravanzava gli organismi di gruppo. Il ruolo del rabbinato fu investito da questo mutamento, che attraversò tutto il XIX secolo. Da una parte la presa che i rabbini e i dirigenti delle comunità ebraiche avevano sui loro componenti andò drasticamente ridimensionandosi poiché era la nozione stessa di «comunità» che si trasformava; dall’altra, gli uni e gli altri furono sempre più spesso chiamati a rappresentare i correligionari nell’aderenza al sistema di valori nazionali. Una dinamica, quest’ultima, sostanzialmente neutrale nei momenti di pace sociale ma destinata a produrre effetti sconvolgenti nelle fasi più drammatiche della storia italiana, in particolare tra il 1938 e il 1943. Che cosa teneva uniti gli ebrei italiani, ovvero ne distingueva ancora la specificità rispetto alla parte restante della società, al netto della stessa confessionalità? Bastava rifarsi all’endogamia – peraltro in altri Paesi europei messa in discussione dalle componenti non ortodosse, partendo da quelle riformate, maggiormente proclivi ad interpretare i matrimoni misti come non necessariamente un’infrazione al codice di appartenenza ebraica – o ad una solidarietà interna che, in realtà, spesso risultava attenuata nei fatti dal crescente individualismo e dalla competizione sociale per incrementare il proprio status nel tessuto civile collettivo?
Fu in questo contesto che il rimando alla «stirpe» e alla «razza» – soprattutto la seconda parola chiave nel linguaggio scientista e poi di senso comune a cavallo tra i due secoli della modernità – si insinuò ben presto come un indice alternativo di identità anche nell’ebraismo peninsulare. Trattandosi di termini d’uso abituale, la loro diffusione non fu legata inizialmente ad un qualche processo di razzizzazione delle relazioni sociali. Era semmai un’estensione del superamento dell’etnicismo comunitarista, quello basato sulla stretta aderenza territoriale, sulla filiazione da origini di gruppo in competizione tra loro, a seconda delle ascendenze delle famiglie. Si risolveva in una nuova sintesi, come quella del rimando ad un ebraismo peninsulare «tradizionalista». Quel che è tuttavia certo è che i richiami alla razza abituarono gli italiani – e tra di loro gli stessi ebrei – a pensare e a pensarsi in base al rimando ad una sorta di «essenza» immutabile, tanto impalpabile, nonché irriducibile alle critiche, quanto persistente.
Quando, con la Prima guerra mondiale e poi con il fascismo, la radicalizzazione ideologica invece intervenne sempre più rapidamente, trovò sufficientemente consolidato, sul piano ideologico e culturale, quel terreno che avrebbe sancito il declassamento e poi la revoca dei diritti di cittadinanza. In altre parole, vi era a quel punto un diffuso assenso, che non nasceva dall’antiebraismo in quanto tale ma dall’oramai abituale attitudine nel considerare in chiave pseudobiologica gli individui. Peraltro, gli ebrei italiani, sempre più stratificati al loro interno in base alle diverse appartenenze socioprofessionali, se nel mentre avevano fatto propria tutta la precettistica della cittadinanza unitaria, avevano combattutto soprattutto, se non pressoché esclusivamente, gli attacchi di ordine strettamente religioso così come quelli nei quali venivano accusati di non essere buoni «patrioti». La questione antisemitica, che assumerà nel corso del tempo proporzioni angoscianti, si incontra fino al fascismo con la sua prevalente, se non esclusiva, declinazione antigiudaica. Un fenomeno che attraversa l’ebraismo italiano nella contemporaneità è tuttavia senz’altro l’alternarsi e il succedersi, a volte conflittuale, delle generazioni. Le quali, dal momento in cui sono inserite dentro i processi di costruzione dello Stato nazionale, debbono provvedere ad una costante ristrutturazione della loro identità. Se i regimi di esclusione legale e di marginalità sociale erano in genere affrontati anche attraverso il ricorso alla reciprocità infrareligiosa, laddove il culto e le pratiche ad esso connesse donavano senso alla propria condizione, contribuendo quindi a risarcirne in misura simbolica e proporzione morale le difficoltà se non le miserie che le si accompagnavano, il conseguente accesso alla sfera pubblica si andò ripetutamente riflettendo sull’autopercezione delle generazioni successive.
l punto di equilibrio tra integrazione e alterità fu quindi trovato nella struttura familiare, che sempre più spesso sopravanzò e sostitì quella comunitaria. Ha sottolineato Carlotta Ferrara degli Uberti che «la dimensione familiare fu effettivamente l’ambito privilegiatodi trasmissione di una forma di identità ebraica in grado di sopravvivere ai mutamenti dell’ambiente circostante. Un’identità spesso poco articolata, coltivata a livello primariamente affettivo ed emozionale e legata alle principali ricorrenze festive del calendario religioso». Questo processo di diffusa privatizzazione non risolse tuttavia le contese aperte, destinate a proseguire nel tempo ed in parte a rinnovarsi fino ad oggi, sull’effettivo ruolo del rabbinato, sull’interpretazione delle Scritture, sul rapporto tra Legge scritta ed orale, sulle funzioni che dovevano residuare agli organismi comunitari. I modi in cui tali nodi non saranno sciolti – semmai entrando essi stessi nel vivo dell’irrisolta questione dell’identità ebraica – si dovranno confrontare anche con la stratificazione socioeconomica dell’ebraismo peninsulare, con la sua diversa distribuzione nel centro-nord d’Italia, con le classi sociali di appartenenza a prescindere dall’ebraicità medesima.
Così come con il ricorrente tema del rapporto con la stragrande maggioranza di connazionali cattolici, in un Paese dove la Riforma non aveva trovato seguito ma la Controriforma aveva comunque rimodellato il cattolicesimo peninsulare. Un tema parallelo a quello dell’identità culturale è quello del profilo normativo. Le comunità territoriali poterono fruire di un trattamento omogeneo solo con la cosiddetta «legge Falco», il regio decreto legge 1731 del 1930 che istituiva l’Unione delle comunità israelitiche italiane (UCII), sotto la rigida ed occhiuta egida del regime fascista. Antecedentemente, l’esigenza – comunemente avvertita – di procedere ad un’armonizzazione e una concertazione di interessi condivisi aveva dato adito a dibattiti anche accesi e ripetutisi nel corso del tempo. La centralizzazione era dichiarata come necessaria in linea di principio ma di fatto vissuta con sospetto. Sia per le molteplici differenze locali, sia per il timore che in campo non ebraico l’istituzione di un organismo unitario fosse percepito come il segno di una distinzione rispetto alla società circostante. I diversi congressi intercomunitari (il «Consorzio delle università e delle comunità israelitiche») succedutisi nei primi decenni del Novecento servirono solo ad evidenziare questa netta divaricazione. Di fatto, l’Italia liberale non ebbe mai un organismo collettivo, su scala nazionale, capace di rappresentare quanto meno un ebraismo istituzionale.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.