Hebraica Nizozot/Scintille
Sulla guerra nel Tanakh e nel pensiero ebraico

Pensieri attorno a un mondo che si regge su tre cose, il giusto giudizio, la verità e la pace, come sosteneva Rabban Shim‘on ben Gamli’el

Ben noto è il versetto di Qohelet: “V’è un tempo per la guerra e v’è un tempo per la pace” (3,8). Il grande poeta israeliano Yehudà Amichai ha osato contraddirlo: “Qohelet si sbaglia: un uomo ha bisogno di amare e di odiare nello stesso tempo, di ridere e di piangere con gli stessi occhi e con le stesse mani di gettare pietre e di raccoglierle, di fare l’amore in guerra e la guerra in amore”.
Sono parole che affiorano alla mente in questi giorni, in cui Gerusalemme è “deserta e desolata” come ogni angolo della terra e dello stato di Israele, giorni di lutto e di autoanalisi, in cui lo spirito di Tisha beAv e di Kippur si fondono. Più di uno ha evocato la meghillat Ekhà, il libro delle lamentazioni. Ma nell’intera Torà la guerra e più in generale la violenza accompagnano il dipanarsi della storia umana, oltre che l’esistenza di Israele.

Già Abramo va in guerra con i suoi alleati già in Bereshit/Gn 14 per liberare il nipote Lot, e in questa prima scena è già chiaro che le ragioni del conflitto bellico, di ogni guerra, sono l’avidità per il territorio, per la ricchezza altrui e per le risorse umane. Nella saga dei figli di Giacobbe, Simeone e Levi muovono guerra contro gli abitanti di Sichem (Gn 44) per vendicare lo stupro di loro sorella Dina. Ma è in Shemot/Esodo che la guerra diventa, per la prima volta, una questione teologico-politica: è Iddio benedetto a scendere in guerra contro un regno e il suo re, l’Egitto e Faraone, per riscattare Israele, che ne diviene pertanto l’alleato. L’uscita dall’Egitto è narrata come una lunga scena di conflitto dove il Signore non risparmia le sue armi; il climax delle dieci piaghe raggiunge l’apice nella morte dei primogeniti e alla fine nell’affogamento in mare dell’esercito di Faraone. Tali eventi sono solennemente celebrati nella ‘cantica del mare’, dove Iddio benedetto è chiamato ish milkhamà ovvero ‘eroe di guerra’ (Es 15,3). Il termine è così forte che già la Septuaginta, in greco, ne aveva capovolto il senso letterale trasformando il sintagma in “Colui che frantuma la guerre”; persino la Bibbia tradotta dai rabbini a metà Novecento l’attenua e traduce: “Il Signore è l’arbitro delle guerre”.

Ma il testo biblico non va censurato. Del resto non aveva Mosè predetto ai figli e alle figlie di Israele: “Il Signore combatterà per voi e voi rimarrete in attesa fiduciosa” (Es 14,14)? Nondimeno, una volta liberato dalla schiavitù egizia il popolo deve uscire dalla passività e combattere egli stesso contro i suoi nemici, il primo e il più emblematico dei quali – perché ostile a Israele senza alcuna ragione – è ‘Amaleq con le sue tribù di predoni. In Es 17, su ordine di Mosè, Giosuè organizza un esercito e si difende (è scritto che fu ‘Amaleq ad attaccare Israele) e con l’aiuto del Signore vince e passa a fil di spada gli ‘amaleqiti. In modo per noi enigmatico, Mosè dichiara che “in forza del trono divino [ossia della potenza del Signore], quella contro ‘Amaleq sarà in ogni generazione una guerra per il Signore” (ivi 17,16). È uno dei versetti più duri dell’intera Bibbia, forse quello che per primo attesta l’esistenza di una guerra santa, perché condotta per conto e volontà dello stesso Iddio benedetto. Tutte le numerose guerre narrate nelle diverse fasi dell’epopea biblica, a prescindere dalla loro storicità o da una mera dimensione mitica (su cui lasciamo discettare i tecnici), quando comandate dal Signore, saranno tutte nel segno di ‘Amaleq, come leggiamo ad esempio in 1Sam 15,2-10, dove il re Shaul, primo sovrano della neonata monarchia israelitica, muoverà sì guerra ad ‘Amaleq ma ne risparmierà il re contro il dettato divino, e il Signore ne sarà scontento al punto da sostituirlo con l’assai più obbediente Davide, ad un tempo guerriero e poeta, oltre che grande peccatore e grande penitente.

In questa fase della teologia biblica le guerre sono fenomeni naturali e, in prospettiva israelocentrica, quasi tutte sante; tuttavia esse verranno normate, come ogni altro aspetto della vita, e tali norme si trovano in Devarim/Dt 20. Il libro di Giosuè, dedicato alla conquista in parte miliare e in parte pacifica della terra, è tutto ispirato alla deontologia bellica del Tanakh. Un’importante riflessione sulle guerre è stata offerta dal pensatore israeliano Yeshayahu Leibowitz: “Yehoshu’à ben Nun [Giosuè] trasformò la terra di Canaan nella terra di Israele; e si trattò di una guerra prescritta [una milchemet ha-mitzwà] e combattuta per ordine del Signore”. Cosa sia questo tipo di guerra lo spiega lo stesso Leibowitz: “Il significato originale di guerra prescritta è quello di una guerra che il popolo di Israele non combatte per un qualsiasi impulso nazionale né per i propri interessi. Sappiamo molto bene a proposito della generazione uscita dall’Egitto che essa non si precipitò affatto verso la terra promessa… Tuttavia fu stabilito dal Cielo un decreto per quella generazione, affinché conquistasse la terra. Ma ciò che è più sorprendente in assoluto, è che proprio questa guerra prescritta – la più grande e importante della storia di Israele, e che fu combattuta in accordo alla Torà e per ordine divino – non sia entrata nel novero delle feste di Israele, che cioè nel calendario ebraico questo evento non abbia ricevuto un giorno speciale dotato di santità… Lo stesso avvenne con la conquista di Gerusalemme da parte di Davide: per quanto importante e significativa, anch’essa non ricevette nessun ricordo nella tradizione di Israele. (…) Questi fatti ci insegnano che le guerre, che in termini moderni chiamiamo ‘nazionaliste’ e sono combatture per l’interesse del popolo e del paese, nel mondo ebraico non ricevettero mai una santificazione religiosa”.

Difficile smentire la riflessione storico-halakhica di Leibowitz, che pertanto ci mette in guardia dal generalizzare il concetto di guerra santa o santificata. Normare eticamente e persino religiosamente l’arte di fare la guerra non significa santificare la guerra di per sé. Una guerra può avere certamente valore storico, umano e strategico… ma non possiede in sé nessun valore o significato religioso, sostiene quel profeta contemporaneo, controverso come tutti i profeti, che fu Yeshayahu Leibowitz. L’eccezione a questa regola sembrerebbe Chanukkà, festa che ricorda il conflitto mosso dagli asmonei (i maccabei dei testi antico-testamentari cristiani) contro un regno ellenistico per il riscatto di Gerusalemme e la ri-consacrazione del Tempio. Ma fu davvero lotta armata contro i Seleucidi o non fu invece una guerra civile per la piena osservanza della Torà? Tale festa infatti, pur contestualizzata in quel conflitto greco-ebraico, celebra un quasi irrilevante dettaglio della vita rituale connesso all’olio kasher per l’accensione delle lampade nel Tempio. Fu un grande miracolo – nes gadol – dice la tradizione, che relega il conflitto armato totalmente ai margini della narrativa religiosa.
Anche sulla base di tali fonti, la tradizione farisaico-rabbinica (elaborata nel fondamentale codice halakhico detto Mishnà, trattato Sotà VIII,7) arrivò a una chiara distinzione che classifica le guerre in due grandi categorie: le milchamot mitzwà o anche milchamot chovà ossia gli scontri armati comandati, obbligatori e quindi legittimi (le guerre a scopi difensivi rientrano in questa categoria), e le milchamot reshut, le guerre permesse o facoltative o volontarie, di iniziativa umana (a proprio rischio e pericolo, per così dire, come i conflitti con mire espansive, guerre che però dovevano essere approvate dal Sinedrio al gran completo, con i 71 membri presenti).

Pur formulata in una terminologia non biblica, questa distinzione classica raggiungeva più scopi: dar conto morale della storia biblica; discernere tra le ragioni e le motivazioni dei conflitti nonché legittimare l’uso delle armi; porre dei limiti alle ambizioni di potere dei sovrani; offrire una filosofia della storia che fosse al contempo una teodicea, a conferma della giustizia e della provvidenza divine. L’halakhà raccoglie tutte queste istanze e distinzioni, come si evince dal titolo del trattato di Mosè Maimonide su tale complessa materia: Hilkhot melakhim u-milchamotehem, ossia Norme sui re e sulle loro guerre dove il filosofo-halakhista sefardita alla fine del XII secolo dà per scontato che le guerre sono tra le cose principali che i re e le nazioni fanno (o ci si aspetta che facciano). Ma oltre a questo approccio realistico, sia nel Tanakh sia nelle fonti rabbiniche si sviluppa in parallelo un approccio idealistico, quasi utopico: accanto a voci profetiche per la guerra, come Joel, ci sono voci profetiche per la pace universale, come Micha e Isaia, i quali ‘annunciano’ che il ferro delle armi un giorno verrà fuso in strumenti agricoli per coltivare il grano. Micha, in particolare, si esprime contro ogni violenza ‘in nome di Dio’, contro cioè la ragion teologica per giustificare una guerra. Un aggiornamento di questa sensibilità profetica si ritrova nell’opera Non nel nome di Dio del rabbino Jonathan Sacks.

Un altro filosofo israeliano, Aviezer Ravitzky, sottolinea l’ironia, anzi il paradosso della storia interreligiosa e dei destini incrociati di ebraismo e cristianesimo: mentre quest’ultimo nasce pacifista ma poi si diffonde con gli eserciti e le armi, Israele ‘nasce’ in mezzo e per mezzo di conflitti armati, sviluppando persino una vera e propria deontologia bellica; tuttavia nel corso della loro lunga storia gli ebrei hanno vissuto quasi sempre lontano dalle armi, coltivando e maturando l’ideale etico-messianico di una società umana senza più guerre, come sognato dai profeti. Questo progressivo allontanarsi dai campi di battaglia è in vero il risultato proprio di cocenti sconfitte militari, segnatamente le ripetute ribellioni armate contro la superpotenza del Mediterraneo – l’impero romano – a cui il piccolo regno di Giudea non volle mai riconoscere la piena sovranità: la rivolta del 69-72, che portò alla distruzione del secondo Tempio, autentico trauma teologico-politico; poi le rivolte sotto Traiano con le connesse sanguinose repressioni; infine la cosiddetta seconda ‘guerra giudaica’, all’epoca di Bar Kochbà, di Rabbi ‘Aqivà e dell’imperatore Adriano, che portò all’espulsione dei giudei dalla Giudea e alla de-ebraicizzazione di Gerusalemme trasformata in Aelia Capitolina.

Il giudaismo rabbinico affonda le sue radici in queste dolorose sconfitte militari alla cui ombra deve riplasmare la fede biblica in un contesto politico e religioso totalmente nuovo. Nessuna sopresa, allora, che i primi documenti di questa tradizione registrino un distacco dalle premesse ideologiche che avevano sostenuto le rivolte armate e la resistenza contro Roma. Tra questi documenti eccelle per chiarezza il trattato mishnico dei Pirqè Avot, una raccolta di insegnamenti morali destinati ai tribunali rabbinici (una delle poche istituzioni politiche che sopravvissero dopo il 135), che insiste sulla pace come valore fondamentale dell’ethos ebraico, secondo l’insegnamento di Rabban Shim‘on ben Gamli’el, nasì ossia presidente del Sinedrio dopo il 50, il quale diceva: “Il mondo si regge su tre cose: sul [giusto] giudizio, sulla verità e sulla pace, [come sta scritto:] ‘Secondo verità e a fini di pace terrete giudizio alle porte delle vostre città’ (Zc 8,16)” (Avot I,18). E ancora vi si legge: “Siate discepoli di Aronne il quale amava la pace e perseguiva la pace, che amava le creature e le avvicinava alla Torà” (Avot I,12). Il rabbino Dante Lattes, allievo del pacifista rav Elia Benamozegh, ha così sintetizzato la posizione dei maestri: “La pace universale rappresenta l’espressione più alta dello spirito di Israele, il suo massimo ideale. Perché la pace è in ogni rapporto, in ogni occasione, nella vita privata e in quella pubblica, nella famiglia e nella società, un bene inestimabile. La triplice benedizione che i kohanim dovevano impartire ai figli di Israele terminava con un augurio di shalom: ‘Che Iddio rivolga verso di te il Suo volto e ti dia pace’ (Bemidbar/Nm 6,26). Il premio promesso da Dio al popolo obbediente consiste non solo nella pioggia, nell’abbondanza delle messi, ma soprattutto in una vita pacifica nella propria patria”.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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