Il pregiudizio antiebraico oggi
Gli israeliani stanno facendo ai palestinesi le stesse cose che gli ebrei hanno subito per colpa dei nazisti. Inoltre, Israele è un paese innaturale, fuori dall’ordine delle cose, non essendo il prodotto di un processo storico, come invece è valso per le altre nazioni, bensì di una congiura, ai danni di popolazioni arabe incolpevoli. Tanto più dal momento che lo Stato ebraico costituirebbe semmai una sorta di risarcimento che le potenze occidentali – colpevoli di avere lasciato assassinare la popolazione ebraica nei territori occupati dalle armate naziste – avrebbero concesso, dopo molte pressioni esercitate in tale senso, ai sopravvissuti e ai loro correligionari. A tutto ciò, in una sorta di circuito perverso, si applicherebbe il fatto che il regime di governo dei territori che non sono parte d’Israele ma da esso vengono amministrati, poiché risultato di una conquista militare, sarebbe informato a rigide politiche di apartheid nei confronti delle popolazioni non ebraiche. Più in generale, lo Stato d’Israele, essendo fondato su di un’ideologia nazionalista, il sionismo, che pone al suo centro gli ebrei e l’ebraismo, avrebbe come ossatura ideologica di riferimento una visione etnica e razziale delle relazioni sociali, privilegiando gli ebrei a prescindere.
In questo senso, ovvero poste tali premesse, l’antisionismo non è solo il rifiuto della vicenda nazionale degli ebrei quand’essa si fa storia politica, con la rinascita di un potere unitario, ma la ritorsione dell’accusa di razzismo all’ebraismo medesimo. Il sionismo, infatti, sancirebbe la “superiorità” ebraica nei confronti del resto del mondo. Superiorità morale, civile, religiosa, culturale, sociale e, infine, “etnica”. I primi a farne le spese sarebbero le popolazioni arabe che vivono nei territori che sono parte, o rimangono contigui, ad Israele medesimo. Ma in prospettiva, un tale suprematismo giudaico potrebbe essere rivolto a tutto il mondo. In una cornice di profonda disumanità.
Non è allora un caso, all’interno di questa costruzione, che lo slittamento di significati più facile – per alcuni aspetti addirittura ovvio agli occhi di certuni – sia quello dettato da due immediate implicazioni: la prima è che il vizio stia, per così dire, nel fatto stesso che la matrice di tutto ciò sia da attribuirsi all’ebraismo; la seconda, è che il manifestarsi concreto di una tale matrice sia il complotto. Gli ebrei, infatti, sarebbero i maestri della congiura. A proprio favore, si intende. Un’ampia letteratura si adopera da molto tempo nel comprovare affermazioni in tale senso. Ed il link tra antisemitismo ed antisionismo è corroborato proprio da tali false logiche, basate su una presunta volontà predatoria degli ebrei medesimi, avidi per loro “natura”; una minoranza nel mondo, ma soggetto collettivo animato da una rapacità senza pari. Ragione per cui occorre ragionare sul perché l’idea di complotto continui a raccogliere assensi, essendo l’anatomia del pregiudizio antiebraico.
Nella discussione pubblica le versioni complottiste sui tanti fatti sociali che costellano la nostra cronaca quotidiana, trovano infatti un abbondante seguito e un discreto accreditamento. Con una morbosa enfatizzazione, quasi che ognuno potesse scegliersi una realtà costruita a sua immagine e somiglianza, nella quale poi accomodarsi. Se poi si tratta di questioni di politica internazionale, le scempiaggini del “furbo” di turno sono garantite. Tra calcolato clamore, finto scandalo e falso dibattito, in un polverone che nel circuito della comunicazione fa tanto seguito perché permette di lasciare girare i contatori della pubblicità. Come se poi ci fosse qualcosa di cui discutere, partendo da questi atteggiamenti il cui unico obiettivo è, invece, quello di auto-affermarsi sull’opinione altrui, ripetendo ossessivamente una serie di preconcetti eretti a sistema di giudizio. Così, tra le altre, le letture “critiche”, di matrice “revisionista”, sulle cosiddette “versioni ufficiali” dell’uccisione dei redattori di Charlie Hebdo, dove le demenziali teorizzazioni di una colossale messinscena seguono a ruota quelle già espresse, divulgate, amplificate, riprodotte indefinitamente riguardo all’11 settembre 2001 (l’«Inside Job», secondo certuni), il mancato viaggio (e sbarco) sulla Luna, l’esistenza in vita di Elvis Presley e quant’altro. Nel mentre sono intervenute tutte le fantasticherie sul Web, sui nuovi «padroni del vapore» del sistema economico, sul ruolo di George Soros è così via.
La somma di questi lucidi deliri è offerto dall’assurda discussione sui vaccini e sulla loro presunta pericolosità sociale. Una riflessione sugli interessi economici che ruotano intorno alle imprese farmaceutiche si è immediatamente trasformata in una specie di festival del complottismo. Del pari, va detto, alla scandalosa legittimazione che certi talk-show, e i loro enfatici conduttori, insieme a non poca stampa, da molto tempo vanno offrendo alle posizioni di aperto razzismo contro determinati gruppi bersaglio. Il sensazionalismo ad esso abbinato è una parte essenziale del dispositivo attraverso il quale opera il pregiudizio: mettere sotto i riflettori pubblici un target; ripetere una serie di affermazioni che, per il fatto stesso di essere reiterate in modo maniacale, ad alta voce, possano legittimarsi da sé; lasciare che “la gente parli” confidando che in assoluta spontaneità la diffamazione circoli in piena libertà, come un veleno che nessun antidoto riesce a fermare. Nella società della comunicazione e dell’informazione totali, l’oggetto perenne non è il sapere – che rischia invece di rimanere sempre più spesso ancorato a pochi gruppi di interesse e di effettivo potere – bensì il simulacro di una falsa consapevolezza, il cui unico obiettivo è di trovare qualcuno, o qualcosa, cui attribuire la responsabilità dei mali del mondo.
Non di meno, l’odierna impronunciabilità dell’antisemitismo nei luoghi pubblici, a partire da quelli televisivi e virtuali, non è per nulla una garanzia che quanto è ancora (auto)censurato oggi lo sia anche in futuro. Non esiste una zona franca al riguardo, poiché ad essere oggetto dell’odio è sempre e comunque un’immagine che si nutre di qualcosa o qualcuno. E l’immaginario del pregiudizio è a prova dei fatti, sostituendosi integralmente ad essi.
Lo scadimento della comunicazione collettiva, da quella praticata nei Social Network per arrivare alle espressioni quotidiane di senso comune, è sotto gli occhi di tutti. Non è peraltro fatto recente, trovando semmai negli anni Ottanta un suo primo tornante, quando iniziò un processo di “sdoganamento” di modi di dire, pensare e, in parte fare, il tutto spacciato come libertà: di espressione, di manifestazione del pensiero, di lotta all’odiato «politicamente corretto» e così via. Più che altro, nei fatti, si tratta di una gara all’insulto libero, che ha poi trovato seguito nelle manifestazioni di formazioni politiche europee con un ampio e solido consenso elettorale. Alla perdita di autonomia e di capacità di emanciparsi dei molti si è quindi sostituito il “diritto” all’invettiva, al sospetto come regola di vita, in altre parole alla diffidenza che diventa avversione. Un po’ come dire: posso fare ben poco per me stesso ma riesco ad odiare, poiché ciò in qualche modo mi risarcisce parzialmente del senso di impotenza.
Tutto ciò non è un caso, peraltro, e non costituisce un problema esclusivamente italiano, trattandosi semmai di uno dei modi in cui l’Europa sociale (se si vuole rimanere nel Continente), quella non delle élite e delle oligarchie auto-centrate ma delle comunità nazionali abbandonate sempre più spesso a se stesse, ha risposto alla crisi che da tempo queste ultime stanno vivendo: al senso della retrocessione sociale, alla percezione di una perdita di terreno, non solo sul piano economico, ha infatti cercato una qualche forma di indennizzo, riconvertendo il conflitto per il mancato riconoscimento dei diritti e delle risorse proprie in lotta contro i più deboli, accusati di ogni colpa. Che l’intolleranza eterna, quella che necessita di aggressività verbale e prevaricazione culturale, si celi dietro queste forme e formule derisorie, scurrili, di falso virilismo politico, di rabbiosità totale, è cosa tanto evidente nei principi quanto negata, per le sue odiose e devastanti conseguenze, nei fatti. Una negazione dell’evidenza come dei diritti altrui che deriva dal compiacimento collettivo, poiché come tutte le banalizzazione farsesche, quelle trivialità del pensiero che conducono verso la licenza per le persecuzioni (di qualsiasi genere esse siano, anche quelle apparentemente innocue, basate sul solo scherno verbale) richiedono di un pubblico di astanti plaudente e consenziente. I quali si sentono nel giusto, a prescindere.
La dietrologia ossessiva, il complottismo esasperato come anche i negazionismi assortiti, false vestali della libertà di opinione, sono i vettori del pregiudizio totale. Peraltro, i criminali seriali, di massa, nell’età contemporanea si presentano sempre come i liberatori dalla «menzogna del potere». In un clamoroso ribaltamento orwelliano di ruoli, laddove «la pace è guerra, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza», così come recitavano i tre slogan dell’Ingsoc, il cosiddetto «socialismo inglese», l’ideologia dominante nell’immaginario stato imperiale di Oceania, creato dalla fervida fantasia letteraria e politica dello scrittore britannico George Orwell. Che aveva capito molte cose, partendo dal principio della falsa coscienza, così espresso, nel 1893, da un pensatore tedesco: «L’ideologia è un processo che il cosiddetto pensatore compie senza dubbio con coscienza, ma con una coscienza falsa. Le vere forze motrici che lo spingono gli restano sconosciute, altrimenti non si tratterebbe più di un processo ideologico. Così egli si immagina delle forze motrici apparenti o false. Trattandosi di un processo intellettuale, egli ne deduce il contenuto, come la forma, dal puro pensiero, sia dal suo proprio pensiero che da quello dei suoi predecessori. Egli lavora con la sola documentazione intellettuale che egli prende, senza guardarla da vicino, come emanante dal pensiero, e senza studiarla in un processo più lontano, indipendente dal pensiero; e tutto ciò è per lui identico all’evidenza stessa, perché ogni azione, in quanto trasmessa dal pensiero, gli appare così in ultima istanza fondata sul pensiero».
La falsa coscienza non è mai ignoranza ma sostituzione del principio di fantasia a quello di realtà. Laddove la prima viene popolata di fantasmi e la seconda svuotata di significati, per fare posto a deliri lucidi. Come un tempo l’antisemitismo era il socialismo degli imbecilli, rimanendo tale peraltro anche ai giorni nostri, oggi tuttavia, per sopraggiunto soprammercato, c’è un antiglobalismo che trova nel complottismo la sua matrice più salda. Due atteggiamenti mentali, l’uno e l’altro, prima ancora che politici, destinati ad avere un grande futuro, costituendo l’ossatura della menzogna che si fa potere spacciandosi per libertà.
Cosa c’entra quest’ordine di riflessioni con il tema del rapporto tra antisemitismo e antisionismo, da cui siamo partiti? Da tempo si parla di un solido nesso tra il rifiuto degli ebrei in quanto tali e il rigetto dello Stato d’Israele come soggetto storico, nazione tra le nazioni. Se nei confronti dei primi tra le motivazioni che vengono addotte vi è la loro sostanziale estraneità, in quanto gruppo sociale e culturale, dal resto dell’umanità, nel caso d’Israele il tema ricorrente è la sua presunta abusività. Ossia, il suo costituire un prodotto artificioso, il risultato di una volontà coloniale, l’imposizione di una comunità nazionale innaturale e di un ordinamento politico che hanno spossessato le collettività originarie, quelle arabe, dello stesso diritto alla loro esistenza su una determinata terra. Un tale tipo di approccio è completamente metastorico, ovvero estraneo ai fatti storici medesimi, dove senz’altro si confrontano (e si scontrano) interessi contrapposti, con vincitori e vinti, ma nei quali l’accusa di abusività non indica mai un conflitto politico bensì la volontà di non riconoscere all’altro da sé una qualche ragione d’esistenza.
Il fondamento dell’antisionismo si basa infatti sull’affermazione perentoria che il movimento nazionale ebraico, e ciò che da esso è derivato, lo Stato d’Israele, costituiscano qualcosa a cui contrapporsi strenuamente poiché storicamente illegittimi. A partire da questa premessa, si possono isolare alcuni temi di fondo. Il primo rimanda al convincimento che gli ebrei non siano un popolo, ancorché disperso, e che quindi non abbiano diritto ad avanzare rivendicazioni di ricomposizione nazionale. Si situa in questo filone parte di quello stesso giudaismo assimilazionista che, soprattutto nell’Ottocento, aveva fatto proprie le istanze del liberalismo, soprattutto laddove quest’ultimo predicava la centralità dell’individuo e la necessità di superare le appartenenze di gruppo, “particolariste”, a favore di una cittadinanza basata su un legame fondato su valori repubblicani e costituzionali. Il secondo tema rinvia all’idea che i problemi degli ebrei non siano affrontabili e risolvibili con il ricorso all’indipendenza nazionale. Il terzo tema, più strettamente religioso, può essere formulato come l’avversione nei confronti dell’auto-redenzione. Il tempo attuale è e rimane quello della dispersione. Il sionismo sarebbe solo la nuova forma di un vecchio problema, il falso messianesimo, che da Gesù ad oggi, passando per Shabbatai Zevi, produce illusioni e lesioni nel corpo stesso dell’ebraismo. Rientra in questo novero la manifestazione odierna più appariscente dell’antisionismo in campo ebraico, quella espressa dal movimento Neturei Karta, i cosiddetti «guardiani della città», presenti a Gerusalemme, negli Stati Uniti, in Belgio, in Gran Bretagna e in Austria. La forte mediatizzazione di cui questo gruppo ha goduto, per l’apparente singolarità e l’eccentricità delle sue posizioni, ne ha amplificato l’impatto sul piano dell’immaginario collettivo.
Il quarto movente è quello che indica in Israele una realizzazione storica che crea più problemi di quanti ne possa (e ne voglia) risolvere. Un atteggiamento, questo, che si ricollega ad una visione per così dire falsamente “pragmatica”, dove la questione, altrimenti basilare nella storia dell’Ottocento e del Novecento, delle identità politiche e sociali di gruppo, viene ricondotta ad una sorta di prontuario di risposte usa e getta. Dal riscontro della conflittualità con le comunità arabe si passa, infatti, ad affermare che la via nazionale era già in origine di per sé illusoria e carica di implicazioni di cui l’ebraismo non avrebbe dovuto farsi in realtà carico.
Un quinto elemento, assecondando un crescendo che una volta innescatosi fatica a fermarsi, è quello per cui il sionismo costituirebbe una forma particolarmente virulenta di razzismo. In questo caso, quasi sempre subentra l’equazione tra sionismo e nazismo, come se fossero l’uno sinonimo dell’altro. Come già si sottolineava, l’accusa, mossa a partire da una tale premessa, è che il sionismo sia l’ideologia del suprematismo ebraico, ovvero la concezione della superiorità assoluta, sul piano razziale, degli ebrei, da essi stessi sapientemente coltivata ai danni del mondo intero. In questo genere di accezione si fa perno sull’interpretazione di Israele come Stato esclusivamente etnico. È interessante notare come in questo caso a rivolgere i propri strali polemici siano sia coloro che, a vario titolo, dichiarano la loro appartenenza alla sinistra, sia quanti, dalla destra radicale, rivelano spesso di nutrire simpatie nei confronti del nazismo.
All’apparente contraddittorietà di questo atteggiamento si può ricollegare il fatto che i neonazisti coltivano un’idea assolutoria delle propria ideologia, depurandola di tutti gli aspetti più deteriori o, al limite, giustificandone la loro necessità storica. Ad essere “cattivi”, in buona sostanza, non erano i carnefici bensì le vittime. Segnatamente, è questo l’imprinting dell’hitlerismo, che attribuisce agli offesi la responsabilità dell’offesa stessa. Nel caso della sinistra, invece, come ha rilevato efficacemente Pierre-André Taguieff, l’antisionismo si presenta in quanto forma bislacca ed esacerbata di fallace antirazzismo. A destra come a sinistra, tuttavia, opera il medesimo cliché, quello che ribalta sugli accusati, con un vero e proprio gioco di proiezioni mentali, le proprie fantasie deliranti.
Giunti a questo punto della scala d’intensità sopravviene definitivamente il pregiudizio antisemita. Israele, infatti, in quanto prodotto mefitico del sionismo, è visto come una sorta di “ebreo collettivo”, sul quale scaricare le colpe attribuite agli ebrei in quanto popolo o, eventualmente, come individui. Gli effetti di caricaturalità, facilmente rilevabili da parte di qualsiasi occhio (ed orecchio) ragionevole, sono invece dei rafforzativi nella creazione e nella diffusione virale, dei paradigmi antisionisti. Non è un caso che soprattutto sul Web, vera miniera di opportunità per chi voglia esercitarsi nella diffusione del pregiudizio, abbondino i simbolismi che evocano l’intero armamentario antisemita, a partire dall’accusa del sangue, ovvero di “nutrirsi”, figurativamente o addirittura letteralmente, del sangue dei non ebrei. Così è infatti rappresentata la politica israeliana nei confronti dei palestinesi, soprattutto nelle diffusissime vignette che usano gli stessi stilemi in voga ai tempi del nazismo.
L’antisionismo, in tale circostanza, del pari all’antisemitismo, assume i caratteri e la natura di posizione identitaria, quindi insindacabile. Chi ne riveste i panni ritiene di non potere derogare in alcun modo da essa, pena la minaccia verso la sua integrità psicofisica. Le ragioni individuali e le dinamiche di gruppo all’opera in questo caso sono per più aspetti per l’appunto omologhe a quelle dell’antisemitismo, dei cui temi di fondo sono di fatto un’attualizzazione. E per l’appunto la fantasia paranoide del sionismo come di un complesso unitario di interessi e di soggetti, tra di loro uniti dall’obiettivo della congiura, alimenta un senso di oppressione che potrà essere superato solo con la distruzione di ciò che viene tematizzato come una minaccia intollerabile.
Mille volte si è parlato di «demenza digitale» così come di Hate Speech e, soprattutto, di Fake News. Se ne sono occupati sociologici, psicologi, professionisti della comunicazione e quant’altri. Anche il Parlamento, senza peraltro avere ancora prodotto leggi significative. Ciò per ribadire quanto il confronto incivile si sia spostato, sempre di più, dai luoghi reali alle piazze virtuali. Rafforzando, molto spesso, la già diffusa propensione prevaricatoria.
Una parte fondamentale di quella incartapecorita partitura che si ripete con inquietante costanza nel corso del tempo, e che porta stancamente il nome di «conflitto israelo-palestinese», d’altro canto sta proprio dentro l’involucro di immagini stereotipate, di violenze verbali gratuite, di volgarità delegittimanti variamente assortite e proferite, transitanti sui mezzi di comunicazione di massa ed amplificate da una incoscienza collettiva che spasima per definirsi e riconoscersi falsamente in quanto “opinione pubblica”. Il Web ha concorso a rigenerare una fallace tensione ideologica intorno ad un confronto storico del quale, a volte anche per eccesso di comunicazione, si è perso il residuo significato. Si tratta di un conflitto dai capelli bianchi, quasi senescente, ripiegato su di sé. Poche altre vicende collettive, ancora aperte e comunque non meno dolorose, hanno ricevuto una così tanto dettagliata attenzione a fronte di un’ossessiva, pervicace, maniacale deformazione.
La quasi totalità dei “giudizi” formulati riguardo al confronto tra israeliani e palestinesi proviene, se ne può stare certi, da due categorie molto disponibili alle battaglie virtuali. La prima di esse è composta da coloro che non sono interessati a sapere ma ritengono di potere sempre dire agli altri cosa debbano pensare. La seconda è costituita da quanti sono animati da un bisogno di partigianeria che travalica nell’inumano. L’isteria prodotta dalla diabolizzazione del sionismo, della quale ancora in tempi recentissimi si sono avuti più di un’ “illustre” manifestazione, fa da cornice a quest’ordine di pregiudizi.
Sulle dinamiche di traslazione dell’avversione antisemita nei confronti dello Stato degli ebrei, inteso come anello terminale di un processo di «occupazione del mondo» da parte dei «giudei», ancora debbono essere scritte parole chiare e definitive. Non mancano le analisi ricche di spunti, come quelle di Robert S. Wistrich, Elhanan Yakira, Jeffrey Herf, Pierre-André Taguieff, David Nirenberg e di altri ancora. La lettura della valanga di gratuità che i Social Network ci restituiscono dà, tuttavia, nuova sostanza alla riflessione in merito. Due dinamiche, tra di loro intrecciate, si rivelano nella loro natura di intelaiatura dell’«immagine antiebraica dell’ebreo» (Taguieff), pervicacemente ripetuta online. Da un lato, c’è la denuncia di una solidarietà di gruppo, ovvero comunitaria, rafforzata dalla religiosità intesa come tradizione esoterica, dalla quale deriverebbe l’idea di una permanente separatezza e di un’irriducibilità ebraica all’integrazione tra in non ebrei. Dall’altro lato, la dimensione diasporica è raffigurata come vocazione al nomadismo, all’ibridazione (ossia la “contaminazione” delle identità altrui), quindi alla dispersione ai quattro angoli del mondo per meglio dominarne le dinamiche, in un ruolo tuttavia esclusivamente parassitario.
Se il primo asse indica la relazione stigmatizzante tra ebraismo ed “esclusivismo”, il secondo rinnova il legame tra potere, complotto e manipolazione. L’incrocio tra i due assi, che si celebra nella retorica del «sionismo mondiale» (trasposizione della triste ed infelice immagine dell’ebraismo come “piovra tentacolare”, che cerca in tutti i modi di impossessarsi del pianeta soggiogandone i popoli), conduce direttamente al rafforzamento della delegittimazione d’Israele. Lo fa intersecando l’accusa di abusivismo storico (l’«entità sionista di Palestina» non avrebbe altra ragione d’essere se non quella di coordinare il complotto giudaico a livello internazionale) a quella di «razzismo ebraico», quest’ultimo incorporato nella natura stessa del sionismo. Il quale, a sua volta, non sarebbe un pensiero nazionale ed un insieme di atti politici ad esso connessi bensì la manifestazione incontrovertibile del suprematismo giudaico, come già si è osservato. Non è un caso, infatti, che la «nazificazione del nazionalismo ebraico» (Taguieff) nell’immaginario collettivo, e quindi anche e soprattutto del Web, si sia accompagnata ai mutamenti sociali, politici e culturali del vasto insieme di forze che connotano il cosiddetto campo antimperialista, dal momento che una parte di questo è stato investito dei processi di islamizzazione del discorso antigiudaico. La resocontazione del conflitto israelo-palestinese, quindi, spesso si incrocia e viene filtrata da questa disposizione d’animo. Cristallizzandone le forme e i contenuti, ossia destoricizzandolo e decontestualizzandolo. Un vecchio confronto per una recente demenza che non è mai solo stupidità ma anche e soprattutto coerenza della falsa coscienza, quella per l’appunto espressa dalle metamorfosi dell’antisemitismo contemporaneo.
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