Il 25esimo compleanno del pride nella San Francisco del Medio Oriente parla di famiglia. Il racconto di un fotografo e di un papà
“Sono felice ed orgoglioso di celebrare nuovamente l’apertura del Gay Pride che, quest’anno, festeggia il suo 25° anniversario. Tel Aviv continua a essere un faro per la democrazia e per i valori che sono alla base della nostra esistenza, compresa la lotta in corso per la piena uguaglianza per tutti”.
Con queste parole Ron Huldai, sindaco del comune di Tel Aviv-Yafo, ha inaugurato ieri il Gay Pride 2023, rimarcando la necessità dell’uguaglianza dei diritti soprattutto nel delicato periodo storico che sta attraversando Israele dall’insediamento dell’ultimo governo Netanyahu.
Eppure, Tel Aviv non si ferma mai, e quest’anno festeggia i 25 anni dalla prima Pride Parade con un’ampia varietà di eventi, conferenze e spettacoli che culminano con due grandi appuntamenti: la parata che attraversa la città fino al lungomare giovedì 8 giugno e, il 9 giugno, la grande festa al Ganne Yehoshua Park, con la partecipazione di artisti di spicco e centinaia di migliaia di persone provenienti da tutto il mondo, che si esibiranno sul palco più grande mai costruito nel parco di Tel Aviv.
Parallelamente, tutta una serie di eventi ha cadenzato il calendario della città per l’intera settimana: dal tradizionale “picnic per le famiglia”, alla festa per gli anziani LGBTQ+, dal ritrovo eclectiqueer, ad un grande matrimonio collettivo.
Dal 1998 Tel Aviv riveste un ruolo pionieristico in Israele e in tutto il Medio Oriente, fonte di ispirazione su scala globale.
Eppure, non è tutto oro quel che luccica e, se da un lato la Città Bianca è davvero la San Francisco del Mediterraneo, dall’altra, sono ancora molte le sfide da affrontare per la comunità LGBTQ+, soprattutto quando si intende costruire un progetto di famiglia.
Per l’occasione abbiamo intervistato Nir Harmat, curatore, che, assieme al suo compagno Etai Cohen, nel corso di 21 anni assieme hanno messo al mondo due figli. Ma non con poche difficoltà: “In Israele non è consentito per una copia gay avviare una gravidanza assistita tramite una madre surrogata, l’unico modo per farlo è andare negli Stati Uniti, dove esiste una vera e propria industria nel settore. Tuttavia – ci tiene a precisare Nir – era per noi fondamentale avviare questo processo con la ricerca della donatrice di uova e della madre surrogata, salvaguardando i diritti delle donne. Non volevamo essere noi a scegliere loro ma piuttosto che fossero loro a scegliere noi. E così è stato: abbiamo trovate delle partner che, nel lungo periodo, sono diventate parte della nostra famiglia ‘allargata’. Esprit, la madre surrogata di Libbi e Yarden, li ha visti crescere giorno dopo giorno, anche se da lontano. E noi sappiamo di avere una famiglia negli Stati Uniti che ci aspetta. È stato per noi un grande regalo, tutta questa esperienza.”
Tuttavia, un’esperienza che ha un prezzo da pagare, sia in termini economici che politici. Come ci spiega Nir: “Non tutti possono permettersi di affrontare il costo di una – o più – gravidanze surrogate all’estero. Noi siamo fortunati a potercelo permettere, ma c’è chi deve ricorrere a prestiti bancari che sono ormai l’equivalente di un mutuo per una casa. Inoltre, lo Stato di Israele non riconosce come ebrei i bambini nati all’estero, a meno che la madre surrogata non sia ebrea, con tutte le conseguenze che questo può portare per un cittadino israeliano, sul lungo periodo. C’è sempre un modo per mettere le cose a posto a livello burocratico, ma anche questo ha un prezzo, e i tempi sono lunghissimi. Nonostante Tel Aviv sia l’epicentro della vita LGBTQ+ del Medio Oriente, Israele, di fatto, rimane un Paese ancora fortemente religioso ed etero-normativo.”
La storia di Nir ed Etai fa parte, per altro, di un grande progetto: “The Dreamers”, che il celebre fotografo Michael Liani, ha intrapreso nel corso del primo lockdown, durante l’esplosione della pandemia, quando non si poteva uscire di casa, e allora ha cominciato lui ad entrare nelle case di alcune famiglie LGBTQ+, esplorando Israele da nord a sud e offrendo un punto di vista diverso, inaspettato.
Liani ha intrapreso questo viaggio attraverso Israele, per costruire un ritratto collettivo, accumulato in un archivio di centinaia di storie d’amore unite dal filo rosso dell’esperienza LGBTQ+. Il ritratto di questa comunità è costituito da fotogrammi personali e intimi che, uniti, si sommano diventando un Pride politico, che fornisce una visione dall’interno e solleva interrogativi sulle identità individuali e collettive.
Le immagini da lui scattate cercano di restituire la realtà quotidiana, a volte con orgoglio, a volte con aria di sfida, nei confronti degli spettatori. Documentano l’ambiente e le case delle persone e rivelano le loro convinzioni e i loro sogni.
Grazie alla macchina fotografica e lo sguardo di Liani, “l’alterità” viene raccontata con una forza che si manifesta attraverso i frammenti più prosaici della vita quotidiana. Molte famiglie e coppie LGBTQ+ faticano ancora a mostrare affetto in pubblico, e Liani, con la sua lente, arriva ad infrangere questa barriera.
Il viaggio di Liani è continuato, fino ad oggi. Per usale le sue parole: “Attraverso il mio sguardo specifico cerco di offrire la mia interpretazione dell’amore e, al tempo stesso, cerco di documentare la realtà, nella sua bellezza”.
Liani lavora con un amacchina fotografica analogica e solitamente scatta non più di quattro o cinque foto. Prima di scattare, istruisce i suoi soggetti a guardare direttamente in macchina e a evitare di compiacere o di essere fotogenici. Il contatto visivo diretto del soggetto con la macchina e il fotografo rappresenta, per lui, la lotta interna e sociale di ognuno e si traduce in un messaggio di speranza: “Il tuo amore è corretto, legittimo e pieno di potere”.
Il lavoro di Liani è poi confluito in un libro. Un risultato importante perché, come spiega il curatore, “Il processo di raccolta, fotografia e documentazione è stato egualitario, nel tentativo di raggiungere l’intero spettro della comunità LGBTQ+ israeliana e fornire un panorama di orgoglio, accettazione e amore”.
Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.