Cronaca di una riapertura annunciata. Il ritorno della movida nella città israeliana
Shuk ha Carmel, Shuk Levinsky, Shuk ha Pishpishim. Non sono solo i tre mercati più grandi di Tel Aviv, sono ormai diventati tre quartieri veri e propri e rappresentano anche le tre anime della vita mondana della città che non dorme mai, come i suoi mercati (che non chiudono mai).
Tranne durante la pandemia. Sono stati chiusi quasi per un anno, salvo i negozianti che vendevano beni di stretta necessiatà. Per quasi un anno, i tre cuori pulsanti della città hanno dovuto trattenere il respiro, fino alla riapertura, nei giorni scorsi, con l’arrivo della primavera e del vaccino, che ormai, con oltre il 70% della popolazione immunizzata, lascia finalmente intravedere la luce in fondo al tunnel, un segnale di speranza non solo per il Paese ma per il mondo intero che ci guarda con attenzione, essendo il primo vero e proprio case study: il vaccino funziona. La gente, finalmente, è tornata per le strade. Anzi, le ha conquistate, improvvisando mercatini vintage tra un vicolo e l’altro della Città Bianca. Tel Aviv, che ha portato con sé dall’Europa prima lo stile liberty eclettico, poi il Bauhaus, di cui la città detiene il primato mondiale, tanto da aver ottenuto il riconoscimento, nel 2003, da parte dell’Unesco, di Patrimonio Culturale dell’Umanità.
Una città giovane ma già cosí ricca di storia, dall’epoca biblica al ritorno delle diverse diaspore del popolo ebraico da tutto il mondo, anche dallo Yemen. Sono proprio gli ebrei yemeniti nel 1907, a fondare il cosiddetto Keren Taimanin, ovvero il “vigneto yemenita” che, un tempo, oltre ai vigneti, offriva orti da cui attingere frutta e verdura. Oggi, invece, la si puó acquistare direttamente al mercato, Shuk ha Carmel, sorto, tra un orto e una bottega di questo quartiere dal gusto mediorientale. A proposito di gusto, negli anni, gli orti sono diventati bancarelle e piccole cucine yemenita, e i banchi sono diventati banconi dei bar, aperti giorno e notte, per accogliere, già alle prime ore del mattino, runner sfiniti dopo propria corsa, proprietari di cani al pascolo, e reduci dai peggiori club della città, affamati dopo una lunga notte alcolica.
Proseguendo da una delle prinicipali traverse di questo mercato lungo Nahalat Benjamin, dove ogni martedì e venerdì viene allestita la fiera di artigianato locale, si incrocia Levinsky Street, l’arteria principale di un altro mercato, Shuk Levinsky, fondato nel dopoguerra da ebrei arrivati soprattutto dalle regioni dei Balcani, dalla Turchia e dalla Persia. Ancora oggi, tra i vari vicoli che lo animano, si possono assaggiare i piatti delle tradizioni locali, pasteggiando accompagnati dall’arak, la versione israeliana della sambuca, liscia o allungata con succo di pompelmo, da consumarsi a qualsiasi ora del giorno e della notte, come lo Spritz a Venezia.
Se il quartiere yemenita negli ultimi anni, per via della sua immediata vicinanza al mare, si è velocemente gentrificato, raggiungendo, quando Tel Aviv era la capitale del turismo in Israele, il record mondiale per la più alta percentuale di airbnb per chilometro quadrato, Shuk Levinsky conserva ancora il suo fascino bohémien, con balconi fatiscenti e fili elettrici che passano ovunque. Una volta era frequentato soprattutto da studenti universitari, che nel frattempo si sono accasati e hanno dato via alla seconda generazione di hipster Made in Israel. Con l’aumentare del costo degli affitti, infatti, molti giovani si sono spostati ancora più a sud, a Jaffa, la cittá vecchia alle cui pendici è sorta l’odierna Tel Aviv, nonché uno dei porti più antichi del mondo, le cui origini risalgono all’epoca di Ramses.
In questo quartiere di “confine”, in cui convivono assieme le tre principali religioni del paese, anche i gusti dello street food si mescolano tra oriente e occidente, cultura cristiana, ebraica e musulmana, assieme al suono delle campane intervallato dal richiamo del muezzin.
Qui una volta spopolavano i robivecchi, da cui il nome Shuk ha Pishpishim, ovvero “mercato delle pulci”. Oggi, da quando la gentrificazione è arrivata anche qua, molti dei rigattieri hanno chiuso lasciando spazio a negozi di modernariato e design, di giovani stilisti israeliani. E tra una bottega e l’altra, sia di giorno di notte, anche qui la movida è tornata al suo splendore. Mancano solo i turisti. In attesa che i vaccini facciano il proprio corso e che i “passaporti verdi” diventino operativi, a Tel Aviv la primavera è sbocciata e i mercati hanno approfittato per farsi belli in attesa del ritorno degli ospiti da oltremare.
Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.