Cultura
Terre e comunità ai margini: l’ebraismo baltico e la Shoah

La presenza ebraica nei Paesi baltici e la tragedia che si abbatté su di essa durante l’occupazione nazista racconta il senso dell’essere società ai margini, compresse tra i mari del Nord e le immense pianure dell’Est

La Russia di oggi fa paura ai Paesi baltici. Ne temono la vocazione espansionista, che si esprime sia nei disegni di egemonia interregionale sia nella capacità di influenzare i mercati, gli scambi, le comunicazioni e molto altro. Il tema in sé non è di certo inedito, trovando nella storia moderna e contemporanea una serie ripetuta di ancoraggi e, con essi, di ripetizioni di motivi di fondo. L’indipendenza degli Stati limitrofi si è infatti sempre giocata sulle spinte che provenivano dalle grandi capitali della Russia, che fossero Mosca piuttosto che San Pietroburgo. L’essere società ai margini, compresse tra i mari del Nord e le immense pianure dell’Est, ha una rilevanza non solo di ordine geografico. Concorre infatti a denotarne la storia nel corso del tempo, condizionandola in più aspetti. La presenza ebraica nei Paesi baltici, e la tragedia che si abbatté su di essa durante l’occupazione nazista, ne rimane una specie di cartina di tornasole. Ancora una volta, attraverso la traiettoria di una minoranza nazionale si possono cogliere più aspetti delle dinamiche d’insediamento ed evoluzione delle maggioranze.

Se nel tardo autunno del 1939 la popolazione di Estonia, Lettonia e Lituania era composta complessivamente da sei milioni di individui, 350mila di essi erano ebrei. Si trattava di circa il 5,8% degli abitanti dell’insieme dei Paesi baltici. La distribuzione era tuttavia diseguale. Almeno 250mila, comprendendovi coloro che erano fuggiti dalla vicina Polonia, erano insediati in Lituania, 95mila in Lettonia e solamente 4.500 in Estonia. La grande maggioranza di essi, indipendentemente dalla Repubblica alla quale appartenevano, erano residenti da lunghissimo periodo negli agglomerati urbani, perlopiù di medie e piccole dimensioni. Senza per questo dimenticare le capitali. Si trattava infatti di popolazioni fortemente legate alle attività che si svolgevano a livello cittadino, connotate da una marcata presenza di commercianti, artigiani, liberi professionisti nonché da una cospicua prevalenza di esercenti attività di natura intellettuale.

Le vicende dell’insediamento ebraico antecedenti all’occupazione nazista seguono le vicissitudini dei suoi diversi paesi di appartenenza tra il 1917 e il 1941, in un contesto fortemente influenzato dalla pressione sovietica, da un lato, e dalle spinte nazionaliste dall’altro. La stabilizzazione delle tre nazioni, dopo la loro indipendenza a seguito della cessazione ufficiale della prima guerra mondiale nei loro territori, fu sempre condizionata dalla presenza di scomodi vicini. Mentre Mosca, superata la fase della guerra civile e avviato un processo di consolidamento interno, iniziò a misurare in prospettiva la possibilità di annettersi in un qualche futuro quei territori (includendovi anche la regione settentrionale della Carelia Lagoda), la riorganizzazione della Polonia e poi, a seguito dell’ascesa di Hitler, della stessa Germania, finirono nel tempo con il costituire un altro fattore di potenziale destabilizzazione della regione. Quanto meno in prospettiva.

La posizione degli ebrei, in un tale contesto, non fu comunque del tutto infelice. Di fatto le comunità locali godettero per quasi un ventennio di una buona autonomia mentre l’antisemitismo, sia pure largamente diffuso, non si tradusse da subito in politiche apertamente discriminatorie. Semmai le Repubbliche concessero – e mantennero – finché fu loro politicamente possibile, l’eguaglianza giuridica tra ebrei e non ebrei, il pieno godimento dei diritti civili e politici, la partecipazione alla vita pubblica. La composizione maggioritaria della popolazione nazionale faceva sì che, mentre i lituani fossero in grande maggioranza cattolici romani, in Estonia e Lettonia prevalessero invece i luterani. Dalla seconda metà degli anni Trenta le condizioni di vita degli ebrei andarono tuttavia progressivamente peggiorando. Non era peraltro una prerogativa dei soli Stati baltici. Una tale erosione si inscriveva infatti nei percorsi di radicalizzazione che si stavano verificando un po’ in tutta l’Europa, a causa della reciproca influenza tra fascistizzazione della politica, effetti di lungo periodo delle crisi economiche e costante declino dell’ordinamento geopolitico suggellato dal trattato di Versailles.

A parole, nessuno avrebbe voluto un’altra guerra, dopo quella disastrosa del 1914-18, ma nei fatti i precari equilibri che ne erano derivati si stavano prestando ad essere velocemente erosi e quindi disintegrati. La pressione crescente esercitata dai nazionalsocialisti in Germania e nei territori ove erano presenti minoranze tedesche si incrociava con il conflitto irrisolto tra le società occidentali e l’Unione Sovietica. Una sorta di regolamento di conti sospeso temporaneamente a seguito della conclusione della brutale guerra civile che aveva insanguinato l’Est tra il 1918 e il 1921, con la vittoria dei «rossi» e la stabilizzazione della potenza bolscevica.

In questa congerie, la presenza ebraica nelle regioni dell’Europa centro-settentrionale si articolava, nel tiepido interregno tra le due guerre mondiali, tra una formale eguaglianza di diritti con il resto della popolazione e le spinte regressive di un antisemitismo che si stava riorganizzando sotto nuove motivazioni, ben più aggressive di quelle del secolo precedente. Se l’ebraismo baltico continuò a coltivare le sue specificità (una vivacissima vita culturale, l’ampia diffusione di stampa e letteratura in yiddish e in ebraico, la diffusa rete di scuole religiose, la produzione di una letteratura di elevato livello, l’insediamento e la diffusione del movimento sionista che proprio in quelle regioni conobbe un ampio riscontro, soprattutto con i movimenti giovanili) gli sbarramenti nel pieno accesso alla vita politica e sociale nei confronti degli ebrei crebbero di numero e intensità. Si trattava di una sorta di allineamento di una parte delle autorità locali e nazionali rispetto allo spirito dei tempi, che prescriveva sempre più spesso di considerare con sospetto la presenza ebraica nell’arena pubblica.

Più in generale, con gli anni Trenta la presenza ebraica venne letta, a quel punto non solo dai partiti e dai movimenti della destra radicale, come un potenziale fattore di sovvertimento dei precari equilibri nazionali. Stranieri in patria, anche perché la vicina (e poco rassicurante) presenza sovietica incentivava l’associazione tra ebraismo e bolscevismo. Un classico, quest’ultimo, della propaganda fascista come anche, in misura crescente, della pubblicistica conservatrice. Le stesse Repubbliche baltiche faticavano peraltro a garantirsi una forma politica e istituzionale stabile e continuativa, affidandosi perlopiù ad esperienze autoritarie o comunque debitrici di una concezione illiberale dei rapporti politici. Se la militanza di alcuni ebrei nei locali partiti comunisti, legati a Mosca, era un fatto assodato, la rilevanza numerica dei primi, così come la consistenza politica dei secondi, era sostanzialmente trascurabile. Tale, comunque, da non permettere nessun tipo di facile equazione. Semmai, come già si è detto, l’attenzione ebraica era rivolta all’esperienza sionista, che dal primo dopoguerra aveva raccolto un crescente interesse soprattutto in ambito giovanile.

Sta di fatto che una tale configurazione delle cose, nella sua stessa precaria reiterazione, venne repentinamente meno quando nell’estate del 1940 le tre sovranità furono cancellate dall’annessione di fatto compiuta da parte sovietica. Il che aprì una ferita che non si sarebbe rimarginata nel corso del tempo, anche a distanza di decenni dal suo verificarsi. L’omologazione politica al regime comunista per l’ebraismo baltico comportò, sul momento, un apparente miglioramento delle proprie condizioni di vita. Le interdizioni giuridiche alla partecipazione alla vita pubblica, reintrodotte in parte con la seconda metà degli anni Trenta, vennero cancellate. Il reclutamento nella pubblica amministrazione, in via di “sovietizzazione”, così come l’accesso alle istituzioni universitarie, vennero favoriti. Non di meno, come dolente contropartita, fu introdotta la nazionalizzazione e l’espropriazione delle imprese industriali e commerciali, il divieto del ricorso all’insegnamento in ebraico e gli ostacoli alla vita religiosa e alle professione liturgica, così come la messa al bando della robusta rete di organizzazioni sioniste. La risposta di queste ultime, soprattutto in Lituania, fu la clandestinità.

A un tale atteggiamento, laddove la condotta dei sovietici ondeggiava complessivamente tra tentativi di cooptazione ed esercizi di repressione, corrispose appieno l’espulsione di 12mila ebrei dai territori baltici, una settimana prima dell’avvio dell’invasione tedesca dell’Oriente russo. Qualificati come soggetti socialmente e politicamente pericolosi, furono convogliati forzatamente verso la Siberia. Il paradosso che si ingenerò in quel frangente fu che la loro deportazione venne letta dalla popolazione non ebraica come un segno della collusione con il potere di Mosca. In un vero e proprio capovolgimento della realtà, il pregiudizio antisemitico, di cui la Germania di Hitler si era fatta vessillifera, per il quale ebraismo e bolscevismo erano la medesima cosa, ovvero due facce della stessa medaglia, si era andato rafforzando anche in quella parte delle società dell’Europa orientale che male (o nulla) tolleravano la presenza sovietica, vista come forza di espropriazione e di brutale imposizione.

Sul falso nesso tra ebrei e comunisti – fermo restando, come già si è avuto modo di osservare in altri articoli comparsi su questa testata, che alcuni ebrei avevano singolarmente aderito al movimento comunista, anche in posizioni di primo piano – e sul suo utilizzo come propellente ideologico da parte dalle destre antidemocratiche e illiberali, allora come anche di nuovo oggi, si potrebbero scrivere molte cose. Sta di fatto che nei Paesi baltici il convincimento di una totale compromissione della componente ebraica nelle politiche sovietiche era diffuso. Per paradosso, quand’anche le autorità moscovite avessero assunto provvedimenti contro quest’ultima, in quanto gruppo comunitario, si sarebbe comunque riprodotto a prescindere. Il pregiudizio, d’altro canto, vive di luce sua propria, dotandosi di una sua razionalità che prescinde dai riscontri di fatto. I quali, rispetto alla breve fase di occupazione sovietica, segnalavano un solo riscontro, ossia che la componente ebraica della popolazione locale assumeva atteggiamenti e condotte per nulla dissimili da quelli della parte restante.

Tali condotte erano essenzialmente legate alla collocazione nella scala sociale: per i possidenti, la disposizione d’animo nei confronti dei sovietici, visti come espropriatori ed usurpatori, era sostanzialmente negativa; per le componenti di estrazione socioeconomica più modesta, la sovietizzazione era a volte intesa come un’opportunità di autovalorizzazione; per le componenti religiose, la richiesta era di vedere preservata la propria autonomia, elemento – quest’ultimo – che andava in rotta di collisione sia con l’ateismo di Stato che con l’indisponibilità di principio delle autorità di conservare l’autonomia comunitaria ebraica, vista come una forma irriducibile di alterità rispetto agli interessi dell’«internazionalismo proletario»; per i politicizzati, soprattutto i non comunisti e i sionisti, l’autoritarismo bolscevico era una vera e propria persecuzione.

A rendere ancora più incandescente la situazione era poi l’azione dei gruppi nazionalisti locali, incentivati dalla Germania, nella quale avevano trovato in parte rifugio. Si trattava perlopiù di organizzazioni illegali in patria, per via non solo delle loro posizioni radicali e anti-istituzionali ma anche per l’evidente subalternità ai nazisti, laddove questa si manifestasse apertamente come opzione ideologica. Oppure, in una sorta di gioco della simmetria tra opposti, per la loro avversione ai tedeschi, così come ai polacchi (altra componente nazionale vista come predatrice), che si accompagnava tuttavia ad una evidente disposizione d’animo sovversiva. Tra di esse c’era il Lietuvos Aktyvistų Frontas (Fronte attivista lituano-LAF), organizzazione di breve durata ma di robusta azione, attiva tra il novembre 1940 e il settembre 1941, che accreditava la possibilità di dare vita ad una sorta di “terza posizione” tra Germania e Unione Sovietica, nel nome di un nazionalismo lituano fortemente radicalizzato. Peraltro il LAF si divise poi al suo interno tra coloro che intendevano collaborare con Berlino (di fatto già risiedendovi fisicamente) e quanti, invece, parteggiavano esclusivamente per l’indipendenza nazionale (i gruppi clandestini di Vilnius e Kaunas). Attendendosi un attacco nazista contro Mosca, per tutti i mesi della sua esistenza il Fronte cercò di propiziarsi una tale circostanza per tradurla in una spinta a favore della sovranità nazionale lituana. Se i sovietici, finché furono presenti nel paese, si adoperarono per individuare, arrestare, torturare, detenere, deportare o giustiziarne i membri, la Germania, una volta intrapresa l’invasione dell’Urss si avvantaggiò della sollevazione nazionalista lituana per poi devitalizzarne tutte le spinte indipendentiste, fino alla messa fuorilegge del LAF medesimo.

Benché una parte dei suoi dirigenti, di nuovo in clandestinità, andasse a quel punto a sostenere le posizioni della resistenza nazionale antinazista, il lascito velenoso che si era prodotto, ovvero le posizioni antisemite (così come quelle avverse alla Polonia), continuò ad operare. In un opuscolo del marzo 1941, ad esempio, così ci si esprimeva: «sarebbe davvero importante approfittare di questa occasione [la futura invasione tedesca, già predetta come altamente probabile se non certa, n.d.r.] per sbarazzarsi degli ebrei. Pertanto, è necessario che si percepisca un clima talmente antisemita nel paese che persino un ebreo sarebbe costretto a convenire sul fatto che non merita alcun diritto o possibilità di vivere nella nuova Lituania. Il nostro obiettivo è costringere gli ebrei a fuggire dalla Lituania insieme alle truppe e ai russi dell’Armata Rossa. Più ebrei abbandonano la Lituania in queste circostanze, più facile sarà ottenere in seguito la completa liberazione dagli ebrei. L’ospitalità che Vitoldo il Grande ha offerto agli ebrei in Lituania è stata revocata per sempre a causa del tradimento ancora in corso della nazione lituana».

Il mito negativo del «bolscevismo ebraico» era diffusissimo nelle file del Fronte. Serviva ad alimentare il nazionalismo ma anche a trovare un punto di sintesi non conflittuale tra l’originaria posizione anti-tedesca e le sopravvenienti simpatie di diverse sue componenti nei confronti del nazionalsocialismo, visto non solo come risposta all’Unione Sovietica ma anche come moderna forma di organizzazione sociale e politica dell’Europa anticomunista. Quando il 22 giugno del 1941, con l’avvio dell’operazione Barbarossa, l’Est europeo fu invaso dai tedeschi, i gruppi paramilitari del LAF cercarono di assumere il controllo del paese e di proclamarvi l’indipendenza nazionale. L’effimera «rivolta di giugno»contro i russi in ritirata, durò una settimana, il tempo di garantire alle truppe tedesche la veloce occupazione del territorio lituano. Nel corso di quelle tumultuose giornante, gli attivisti delle milizie locali commisero un grande numero di violenze organizzate, fino ai pogrom e agli omicidi di massa, a danno dei connazionali ebrei. Su questo aspetto, peraltro, si tornerà a breve, per meglio specificarne la natura e le modalità di esecuzione. Basti comunque ricordare da subito che per Berlino il collaborazionismo, anche quello dei baltici, era considerato come un soggetto di servizio, intimamente disprezzato ma politicamente istigato per cercare di ottenere i migliori risultati per sé al minore prezzo possibile. Il nazionalismo dell’Europa centro-orientale fu quindi sollecitato nella misura in cui poteva tornare utile ai propri progetti di espansione coloniale.

Se questo era il quadro lituano, in Lettonia operava da tempo la Pērkonkrusts(«Croce di tuono»), movimento-partito ispirato all’ideologia fascista e, a tratti, nazionalsocialista pur coltivando anch’esso, al pari dei nazionalisti della Lituania, una sostanziale diffidenza nei confronti del ruolo geopolitico della Germania. Nato nel 1933 come organizzazione politica e culturale, ebbe da subito vita difficile, posto che le autorità ne vietarono le attività e tutte le manifestazioni pubbliche, costringendo alcuni suoi esponenti all’esilio. Tra il 1940 e il 1956 la Croce (che era anticristiana, rifacendosi ai culti antecedenti alla diffusione delle religione monoteista) collaborò con i «Fratelli della foresta», conosciuti in lettone come mežabrāļi (in lituano miško broliai ed in estone metsavennad). Si trattava, in quest’ultimo caso, di uno dei più importanti movimenti del partigianato anticomunista, impegnato a contrastare, armi alla mano, la presenza sovietica nell’Europa orientale (come avvenne anche nell’Ucraina occidentale, in Polonia, in Romania e in Bulgaria dal 1944 in poi).

In Estonia, infine, era presente l’Omakaitse (la «guardia interna»), organizzata come partito-milizia. Fondata già nel 1917, dopo la rivoluzione russa, si mosse da subito per proclamare l’indipendenza nazionale. Sopravvissuta agli eventi a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, con l’approssimarsi dei tedeschi nel 1941 di fatto assunse il controllo del paese, ed in particolare dal momento in cui i sovietici iniziarono a ritirarsi, con i disordini che vi si accompagnarono. L’effimero governo provvisorio al quale diede seguito fu quasi immediatamente sciolto dai nazisti che, tuttavia, permisero la presenza in funzione sussidiaria e collaborazionista della milizia (anche se la sua precedente organizzazione autonoma fu dissolta, mentre i suoi membri furono accorpati in nuove unità rigidamente controllate dalle nuove autorità di occupazione). L’Estonia, parte del Reichskommissariat Ostland (dal luglio 1941 al settembre 1944), contava su un numero piccolissimo di ebrei. Di fatto l’Omakaitse “nazificata” fu impegnata nelle attività di presidio del territorio, di polizia ausiliaria, di «lotta al comunismo» (un’espressione sotto la quale si potevano giustificare molti soprusi) e di sostegno agli “ideali” nazionali laddove essi coincidessero con il pangermanesimo degli occupanti. Come tale, rimase un’organizzazione di difesa territoriale volontaria fino al 2 ottobre 1943, giorno in cui il governo fantoccio estone (conosciuto come «Autogestione») emanò una disposizione nel merito della chiamata della popolazione maschile al servizio obbligatorio di guardia nazionale. Quando il Gruppo di armate A della Wehrmacht iniziò a ritirarsi dall’Estonia continentale, nell’autunno del 1944, la maggior parte dei membri dell’Omakaitse cessò il servizio oppure entrò a fare parte dei Fratelli della foresta, mentre coloro che furono evacuati in Germania vennero incorporati nella ventesima divisione Waffen Grenadier delle SS (conosciuta anche come prima divisione estone).

Il panorama del nazionalismo collaborazionista baltico si segnala per due elementi, oltre ovviamente alla compartecipazione all’attività di occupazione tedesca: il primo, trattandosi di un insieme di organizzazioni che raccoglieva un diffuso risentimento antisovietico, è l’anticomunismo viscerale, che veniva vissuto come un tratto distintivo della propria identità; il secondo, è l’antisemitismo, che in nelle regioni storiche della Curlandia e della Livonia si alimentava del solido ancoraggio al rigetto del «bolscevismo». Un tema, quest’ultimo, trasversale a tutta l’Europa dell’Est, per nulla inedito ma abilmente utilizzato dai nazisti per tentare di aggregare – intorno al loro progetto di un «nuovo ordine europeo», dove la Germania avrebbe assoggettato e dominato l’intero Continente – popolazioni e nazioni comunque destinate ad un ruolo, nel migliore dei casi, del tutto subalterno. Il nesso tra rivoluzione ed ebraismo, incarnato dal ricorso alla magica parola «bolscevismo», espressione che veniva accostata alla ripugnanza, alla disumanità, alla “degenerazione” in quanto tali, risaliva peraltro a centocinquanta anni prima, a partire dagli esiti della Rivoluzione francese, quando si iniziò a identificare la presenza ebraica continentale con i germi del sovversivismo, inteso come prodotto delle politica contemporanea. C’è come una lunga linea di discendenza in questo genere di costrutti, per nulla estemporanei e come tali a tutt’oggi esistenti. Il nazionalismo più esasperato, riformulato dai fascismi continentali come radicamento e rigenerazione etnorazziale, si prestava ad essere la formula apparentemente risolutiva per una destra radicale che, prima ancora di rigettare il collettivismo sovietico, trovava nel rifiuto dell’individualità liberale una motivazione profonda. L’antisemitismo si riformulava quindi alla luce di una tale temperie. Con quali risultati lo si vedrà nelle righe che seguiranno a quelle che il lettore ha appena affrontato.

Continua

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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