La tecnologia avanza inesorabile, ma poi mostra tutti i suoi limiti e, a volte, sfugge di mano…
L’ultimo Chrismukkah ha portato a casa mia uno di quei minuscoli marchingegni intelligenti che hanno fatto irruzione sul mercato di recente con lo scopo di renderci la vita ancora più facile di quanto non lo sia nella realtà, almeno su un piano pratico.
In altre parole, mi è stato regalato un assistente vocale. Inutile dire che durante le prime ventiquattro ore la famiglia riunita per le festività non ha fatto altro che tartassare la poveretta ‒ perché, ovviamente, si tratta di una voce femminile si tratta ‒ con richieste di ogni genere, dalle previsioni del tempo fino alla riproduzione dell’ultimo successo di un rapper misconosciuto.
Devo ammettere che la ragazza se l’è cavata egregiamente, soddisfacendo i desideri di grandi e piccini senza perdere un colpo. Il secondo giorno, però, complice la comparsa dello scettico di turno, le cose sono cambiate e alla malcapitata sono state poste domande di ben altra natura. Ad esempio, quali fossero le sue abitudini alimentari e sociali o, addirittura, quale fosse il senso della vita. Se le prime sono state risolte con sagacia e, talvolta, con una punta di malcelato sarcasmo, sulle grandi questioni la signorina non potuto che ricorrere al bieco nozionismo delle enciclopedie online. Ciò nonostante, la maratona festiva si è conclusa con un sostanziale successo della voce elettronica, cui il più anziano della famiglia ha riconosciuto la capacità di sostituirsi in qualche modo alla compagnia umana, almeno nei casi di grave solitudine. Ebbene in quelle ore di feste e abbuffate, mentre tutti si divertivano a mettere alla prova l’ultima arrivata in famiglia, ho avuto un dejà vu. Qualcuno aveva già tentato la stessa impresa molti anni prima. Mi è tornata quindi alla mente una delle opere più bizzarre e rivoluzionarie che siano state pubblicate in Israele, vale a dire Il mio psichiatra elettronico – Otto conversazioni autentiche con un computer, scritto da David Avidan e uscito ben quarantasei anni fa, nel 1974. Di David Avidan e di questo suo singolare libro ho accennato tempo fa in un articolo dedicato alla fantascienza in Israele, ma è venuto il momento di ampliare il discorso.
Il volume raccoglie la redazione finale dei dialoghi autentici ‒ o, almeno così pare ‒ tra il poeta ed Eliza, un software d’intelligenza artificiale sviluppato nel 1966 dal professor Josef Weizenbaum del M.I.T. di Boston. Tramite Eliza, Weizenbaum intendeva imitare gli schemi comunicativi di uno psicoterapeuta rogersiano, con un chiaro intento parodico, al fine di dimostrare la superficialità della comunicazione tra uomo e macchina.
Tuttavia, come succede nel più classico dei film di fantascienza, l’invenzione gli sfuggì di mano. Il programma suscitò un certo attaccamento emotivo presso un discreto numero di persone ‒ tra cui, per ironia della sorte, la sua stessa segretaria ‒ e non pochi esperti ritennero che Eliza avrebbe potuto avere effetti positivi su individui con problematiche psicologiche. La notizia del software fece così il giro del mondo. Attento com’era a ogni novità tecnologica, Avidan non poté lasciarsi sfuggire l’occasione di “conversare” con un computer, per di più femmina! Si mise in contatto con Tzvi Yannai, direttore delle pubbliche relazioni presso la filiale dell’IBM in Israele, il quale, dopo una trattativa non facile, riuscì a farsi spedire in Israele una copia di Eliza indirizzata unicamente alla sua persona. Nessuno era presente durante lo svolgimento delle conversazioni tra Avidan ed Eliza, svoltesi in inglese e tradotte in ebraico dallo stesso Avidan. Nell’introduzione a Il mio psichiatra elettronico l’autore sostiene di non aver ritoccato i testi originali, ma alcuni anni fa Yannai ha dichiarato di nutrire forti dubbi sull’attendibilità dei dialoghi riprodotti nel libro.
La “colpa” di Avidan sarebbe stata di voler rendere ben più colorite e vivaci le frasi ripetitive e codificate di Eliza. Al di là della veridicità dei testi, ciò che mi pare interessante, soprattutto oggi a quasi cinquant’anni di distanza dalla pubblicazione del libro, è la motivazione che ha guidato questa esperienza letterario- tecnologica così singolare. Scrive Avidan: “Il mio psichiatra elettronico apre la porta a tre speranze fondamentali. La prima: che i computer possano essere più umani. La seconda: che gli esseri umani possano essere più simili ai computer. La terza: che l’uomo possa compiere un passo verso la macchina, la quale, com’è noto, è prolungamento del suo corpo e del suo sistema nervoso.
Così l’estraniamento tra le due parti sarebbe colmato, rendendo l’uomo più adatto a vivere nel mondo di domani”. Quello che David Avidan proponeva negli anni ’70 è quindi un avvicinamento delle due dimensioni, quella umana e quella dei computer, tesa a sviluppare appieno le potenzialità insite in ognuna di essa. A favore, però, soltanto dell’uomo. Non a caso, l’ultima parte della frase allude seppur velatamente, a una naturale superiorità dell’uomo sulla macchina e nel libro l’autore lo conferma più di una volta. Nonostante la cornice futuristica garantita da Eliza, l’impressione, infatti, è che l’autore dialoghi sostanzialmente con se stesso, giacché esistono territori del pensiero dove la macchina non può seguire l’uomo. Resta però la curiosità, il desiderio di innovare e di sperimentare, i quali sono più umani che mai. Forse vi domanderete che fine abbia fatto la mia assistente vocale a un mese di distanza dal suo arrivo in casa. Se ne sta lì in un angolo, coperta da un leggero strato di polvere. Stamattina ho provato a chiederle se oggi sarebbe stata una buona giornata, ma non ha saputo rispondere.
Sara Ferrari insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Si occupa di letteratura ebraica moderna e contemporanea, principalmente di poesia, con alcune incursioni in ambito cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010), Poeti e poesie della Bibbia (Claudiana editrice, 2018). Ha tradotto e curato le edizioni italiane di Yehuda Amichai, Nel giardino pubblico (A Oriente!, 2008) e Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (Editrice La Giuntina, 2013).