Storie della nostra inviata al festival internazionale della stampa ebraica nel mondo
Non più di due mesi fa si è svolto in Israele il Jewish Media Summit, il festival della stampa ebraica nel mondo, che ha rappresentato, tra le altre cose, l’occasione perfetta per approfondire la conoscenza della cultura e della religione ebraica in alcuni Paesi del mondo, non immediatamente associati all’ebraismo.
In particolare ho rivolto alcune domande alla delegata della Croazia, Natasa Barac, alla delegata di Panama Sarita Esse, e al delegato dello Sri Lanka Avi Kumar.
Natasa Barac, giornalista croata è il caporedattore di Ha-Kol, la rivista della comunità ebraica in Croazia. Riguardo il JMS ha dichiarato: «Questa esperienza mi aiuterà molto nel mio lavoro. Mi ha dato molte nuove idee e per me è stato importante conoscere l’Israele di oggi ma anche le altre comunità ebraiche. Tutti i partecipanti – ed eravamo circa un centinaio provenienti da 25 Paesi di tutto il mondo – hanno avuto l’opportunità unica di parlare e ascoltare alcuni degli israeliani più influenti provenienti da diversi settori, dalla politica al giornalismo, dall’esercito alla televisione».
A Natasa ho chiesto di parlarmi del modo in cui oggi è avvertita la religione ebraica, e che tipo di comunità sono presenti in Croazia.
«Gli ebrei vivevano nell’odierna Croazia fin dal IX secolo. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale c’erano 40 comunità ebraiche nel Paese e circa 24.000 ebrei. Durante l’Olocausto il 78% degli ebrei croati morì. La comunità ebraica croata attuale è piuttosto piccola – circa 2.500 membri. Ma è una comunità molto attiva: abbiamo un asilo, un club giovanile, un club sportivo Maccabi, una scuola domenicale, una galleria d’arte, un centro di documentazione sulla Shoah, un archivio e una biblioteca con 20.000 libri. La Comunità possiede anche una casa di riposo. Nel 1998 è stato nominato un rabbino permanente per la prima volta dopo mezzo secolo. La maggior parte dei membri non è molto religiosa, ma manteniamo viva la nostra tradizione e la nostra lunga storia. Gran parte dei circa 2.000 ebrei del Paese vive a Zagabria, con comunità più piccole in altre nove città».
Sarita Esse, giornalista freelance proveniente dal Panama, ha una pagina Instagram @cafeconteclas di 12 mila followers. Per sette anni è stata redattrice e ha lavorato per la principale rivista panamense, Ellas, dove tuttora viene pubblicata la sua rubrica settimanale, Café con Teclas. La rivista, pubblicata insieme al quotidiano La Prensa, non è legata alla comunità, ma in qualche modo è diventata una figura conosciuta all’interno e all’esterno della comunità ebraica. Oltre a questo, Sarita conduce un programma radiofonico settimanale, e con i suoi canali social cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica su temi per lei importanti. Ad esempio, durante gli scontri del 2021, ha sostenuto Israele e denunciato le fake news.
«Sono stata invitata al Summit perché uso spesso le mie piattaforme (@cafeconteclas) per informare su Israele, sul nostro patrimonio e sulle nostre tradizioni. All’interno della comunità collaboro con il comitato antidiffamazione e sono in contatto con l’Ambasciata di Israele per sostenere le loro iniziative in ogni modo possibile. A marzo mi sono recata in Israele per mostrare il Paese ai miei fan Ig. L’Ambasciata mi ha aiutato a organizzare incontri con il Technion, le start-up e altri interessanti gruppi per mostrare il contributo di Israele al mondo.
Per quanto riguarda la vita ebraica nella nostra comunità, è sempre stata molto tradizionale. Ancora qui ci si aspetta che le donne si prendano cura della casa e crescano i figli. Negli ultimi 10 anni ci si è concentrati maggiormente sulla carriera delle donne; prima l’obiettivo principale era sposarsi. Il divorzio era quasi sconosciuto, ora è più comune. Ma famiglia e tradizioni hanno un valore molto alto. L’osservanza del giudaismo è molto importante e credo che queste due cose siano le più belle che abbiamo. Come aspetto negativo, essendo una comunità molto piccola, è anche piuttosto competitiva al suo interno e non manca una certa pressione sociale.
Tutte le entità della comunità sono governate da un’unica leadership, il che è ottimo da un lato, ma dall’altro fa sì che a volte le persone si lamentino. In altre parole, facciamo quello che dicono i leader, e basta. A cominciare da regole molto concrete: non si celebrano matrimoni il sabato sera; i luoghi devono essere approvati dal rabbino; il cibo deve essere rigorosamente kosher… A volte può essere soffocante, ma rafforza i nostri valori fondamentali.
La comunità ebraica di Panama è piccola, ma forte e unita. È molto osservante, attenta alle nostre mitzvot. Siamo molto ben organizzati con sinagoghe, scuole, yeshiva, supermercati, ristoranti kosher e diverse organizzazioni e istituzioni che si occupano di ogni possibile necessità: tzedaka, salute, scuola, aiuto agli anziani, ecc.
Qui essere ebrei equivale quasi a essere pro-Israele, e lo sosteniamo il più possibile attraverso FIDF, Wizo, Keren Hayesod, per citarne alcune organizzazioni pro Israele. L’assimilazione e il matrimonio misto sono quasi impossibili, e io attribuisco anche a questo la nostra forza.
Per quanto riguarda il Summit, mi è piaciuto molto essere presente, anche se molte delle cose che ho sentito e visto mi hanno un po’ disturbato. Perché penso che noi ebrei dobbiamo restare uniti, al di là delle nostre differenze».
Avii Kumar, proveniente dallo Sri Lanka, è un giornalista freelance, il suo interesse per il Jewish Media Summit, nasce dalla sua attività come storico dell’Olocausto, ma come dichiara «ora ho allargato i miei interessi. Sono stato pubblicato come freelance su JNS, Jerusalem Post, Jewish Independent Canada ecc. Sull’Irish Examiner ho scritto un articolo su Michael Collins che si nascondeva nella casa di un rabbino ebreo. Ho pubblicato anche nel mio Paese natale, lo Sri Lanka, sui maggiori media inglesi, e sul Khaleej Times degli Emirati Arabi Uniti. Non ho un pubblico di riferimento: ogni articolo è diverso, ogni pubblicazione è diversa e gli editori vogliono articoli diversi per i loro lettori».
Sulla situazione ebraica in Sri Lanka ha affermato: «In Sri Lanka non ci sono ebrei: si sono tutti assimilati in altre comunità o se ne sono andati. Abbiamo tombe ebraiche che ricordano l’esistenza di una comunità, ma non c’è una presenza ebraica permanente. Molti srilankesi hanno cognomi sefarditi senza rendersene conto – probabilmente la maggioranza in alcune regioni come Colombo, la capitale. Ma ci sono anche non ebrei appartenenti ai quattro grandi gruppi religiosi che hanno un interesse per la cultura israeliana/ebraica per vari motivi e che visitano Israele per motivi religiosi o di altro tipo. Per concludere credo che la maggior parte degli srilankesi non sappia molto di Israele e viceversa, come ho potuto capire dalle mie interazioni con entrambi».