La luna piena, l’amore e altre storie: un affascinante viaggio rabbinico dentro i segreti della celebrazione del “San Valentino ebraico”
Le tre settimane che vanno dal 17 di Tammuz (giorno in cui i Romani si aprirono la prima breccia nelle porte di Gerusalemme) al 9 di Av (giorno di commemorazione della Distruzione del Tempio) sono tradizionalmente un periodo di lutto, conosciuto come bein hametzarim (“tra le ristrettezze” o “tra le difficoltà”). Sorprende perciò che appena una settimana dopo Tisha B’Av ricorra una festività particolarmente gioiosa: il plenilunio del quindicesimo giorno del mese di Av.
Una festa gioiosa: perché?
Su Tu B’Av, la letteratura rabbinica scrive: “Mai vide Israele feste più gioiose del 15 di Av e di Yom Kippur: poiché in loro occasione le fanciulle di Gerusalemme usavano uscire vestite di bianco (con abiti prestati, tuttavia, per non mettere in imbarazzo chi non poteva permetterseli). Gli abiti dovevano prima passare per un’immersione rituale, dopo di che le fanciulle uscivano a danzare tra i vigneti, dicendo: “Giovani uomini, guardate e osservate bene colei che state per scegliere”. (Rabban Simeon ben Gamliel, Mishah Ta’anit 4:8).
I rabbini della Ghemara esprimono perplessità: “Giusto che Yom Kippur sia un giorno di gioia, poiché celebra il perdono e il dono a Mosè della seconda copia delle Tavole della Legge; ma perché il 15 di Av dovrebbe essere un giorno di gioia?”. Partiamo da qui per un affascinante viaggio rabbinico dentro i segreti della celebrazione del quindicesimo (Tu) di Av.
Rabbi Yehudah dice, a nome di Samuele: “In quel giorno era permesso agli appartenenti di diverse tribù di sposarsi”. Da dove lo deduciamo? Da quanto scritto in Numeri, 36:6: “Questa è la cosa che l’Eterno ha comandato alle figlie di Zelofcad: sposeranno chi vorranno, purché lo sposo sia della tribù dei loro padri”. I rabbini hanno sostenuto che l’espressione “Questa è la cosa” implicasse che l’ordine vincolava solo quella generazione e non quelle successive.
Rabbi Joseph, citando Rabbi Nachman, scrive: “In quel giorno era permesso ai membri della tribù di Beniamino di sposarsi con membri di altre tribù. Benché sia scritto in Giudici 21:1: “Gli Israeliti a Mizpa avevano giurato: nessuno di noi concederà la figlia in moglie a un uomo della tribù di Beniamino”. E Rabbi bar bar Hana, allievo di Rabbi Johanan: “In quel giorno, gli ultimi di coloro che erano destinati a perire nel deserto morirono, e il destino fu così compiuto”. Mentre Ulla commenta: “In quel giorno, le guardie agli ordini di Geroboamo che dovevano impedire agli Israeliti di entrare a Gerusalemme furono licenziate da Osea figlio di Elah, che disse: Lascia che vadano ovunque vogliano”.
Rabbi Matnah aggiunge: “In quel giorno fu dato il permesso di seppellire i morti uccisi nella battaglia della città di Beitar”. E Rabbi Joseph: “In quel giorno si smise di tagliare legna per l’altare, come si apprende nella Baraita [legge orale che non è stata incorporata nella Mishanh]”. Infine, Rabbi Eliezer il Grande: “Dal quindicesimo giorno di Av il calore del sole diminuisce e il legname non è più secco, perciò si interruppero i lavori per la costruzione dell’altare”.
Se c’è una regola d’oro dell’esposizione rabbinica, è che più qualcosa è caricato di spiegazioni diverse, meno probabile è che si sappia qual è davvero quella giusta. La celebrazione del 15 di Av, che coincideva con l’inizio della vendemmia, è sicuramente parte delle usanze ebraiche dell’epoca talmudica, ma la sua origine è andata perduta nelle nebbie del tempo. Guardiamo brevemente alle spiegazioni del Talmud, prima di considerare la festa in sé.
Cinque spiegazioni più una
La storia delle figlie di Zelofcad è narrata nel libro dei Numeri: un caso raro di controversia legale e un esempio importante nel testo biblico, che parla di donne che affrontano Mosè perché sia loro riconosciuta uguaglianza a norma di legge. Zelofcad è morto, lasciando cinque figlie e nessun figlio: secondo le leggi sull’eredità del periodo, alle ragazze non spetterebbe niente. Esse vanno dunque da Mosè a difendere la propria causa, senza omettere il fatto che – se non avranno diritto all’eredità – il loro padre sarà dimenticato dalla tribù. Mosè si consulta con Dio, il quale dà ragione alle giovani donne: hanno diritto all’eredità del padre. In seguito, si presenta un nuovo problema: i capi della tribù di Manasse – quella a cui Zelofcad e le sue figlie appartengono – fanno notare a Mosè che, se in una famiglia senza figli maschi ereditano le donne e poi sposano qualcuno di un’altra tribù, l’eredità e la terra passeranno alla tribù dello sposo, e la tribù d’origine ne risulterà impoverita. La legge è così emendata: le donne che ereditano terra dal padre possono sposare solo qualcuno della propria tribù. Un fenomeno restrittivo che causa problemi, per questo Rabbi Yehuda, citando Samuele, menziona la data in cui questo divieto cade: il 15 di Av dell’ultimo anno prima dell’ingresso del popolo ebraico nella Terra d’Israele.
La seconda spiegazione fornita dalla Ghemara arriva da una storia molto più cupa che si trova alla fine del Libro dei Giudici: una donna si ritrova di notte nel territorio della tribù di Beniamino ed è vittima di uno stupro di gruppo che ne causa la morte. Le altre tribù muovono guerra ai beniaminiti, che non vogliono consegnare i criminali alla giustizia, e viene proclamato il divieto di sposare qualcuno di quella tribù. Il divieto decade, anche questa volta, il 15 di Av. Si può dedurre dalla somiglianza di Tu B’Av con l’esortazione di Giudici 21:21: “State all’erta: quando le figlie di Silo usciranno per danzare, sbucate dalle vigne e lasciate che ogni uomo prenda tra esse la propria sposa, e poi andate nella terra di Beniamino”.
La terza spiegazione viene da un midrash che si trova nel Talmud gerosolimitano – oltre che in altri testi – che dice che la generazione destinata a morire nel deserto perché legata al peccato del vitello d’oro sarebbe morta a Tisha b’Av. Un problema serio: con così tanti morti in un giorno solo, come sarebbe stato possibile scavare le tombe e seppellire tutti? Mosè allora decide: a Tisha B’Av ognuno dovrà scavare la propria tomba e giacere al suo interno. Quelli destinati a morire moriranno, quelli destinati a vivere si rialzeranno e ricopriranno di terra le tombe dei primi. Molti di quelli che rimasero in vita continuarono a credere di essere comunque destinati alla morte, e così rimasero coricati nelle tombe che si erano scavati, fino a che non videro la luna piena di Av ed ebbero prova che Tisha b’Av era davvero passato: erano destinati alla vita!
La quarta spiegazione: Re Geroboamo (900 a.e.v) sfida il governo autoritario di Roboamo, figlio di Salomone, portando con sé le dieci tribù del nord nella sua capitale Sichem. Lì, costruisce due templi, Bethel e Dan, per rivaleggiare con quello di Gerusalemme, e proibisce ai suoi sudditi di andare a pregare a Gerusalemme. Cinquant’anni dopo, l’ultimo re del Regno del Nord d’Israele annulla il divieto, facendo seguire grande festa: di nuovo, nel giorno di Tu b’Av.
La quinta spiegazione, come la terza, ha a che vedere con le tombe: in questo caso, quelle degli ebrei uccisi durante la ribellione contro Roma guidata dal falso messia Shimon bar Kochba nel 135. Secondo uno storico romano, il numero degli ebrei massacrati dai Romani fu di almeno 580.000, più molti altri ridotti in schiavitù in altre parti dell’impero. La maggioranza della popolazione ebraica fu esiliata dalla terra, che prese un nuovo nome, Siria Palestina, così da mettere a dura prova il legame tra di essa e gli ebrei. A Tisha b’Av il Tempio e le speranze furono definitivamente distrutti, la fortezza di Beitar espugnata, i suoi difensori uccisi e lasciati insepolti. La spiegazione di Rav Matnah per Tu b’Av è dunque che sei giorni dopo la tragedia (ma alcune storie dicono un anno e sei giorni) i Romani finalmente consentirono alla sepoltura degli ebrei che erano stati massacrati.
Alla fine di tante spiegazioni drammatiche, ecco l’ultima: la più prosaica, ma anche quella che ha più probabilità di essere vera. Semplicemente, il plenilunio di Av è vicino al solstizio d’estate, passato il quale le giornate cominciano ad accorciarsi e non si poteva essere del tutto sicuri che il clima sarebbe stato abbastanza secco perché il legno tagliato per i sacrifici al Tempio fosse pronto all’uso; e il legno tagliato dopo probabilmente avrebbe emanato un odore sgradevole. Questa spiegazione è supportata dal fatto che siamo a conoscenza di usanze del vicino Oriente in cui la fine della stagione del taglio della legna è segnata da celebrazioni comprendenti danze e musica.
Rivendicare Tu b’Av, celebrazione della vita e della sensualità
Quindi, ricapitolando: Tu b’Av era celebrato nel periodo mishnanico, le giovani uscivano per le vigne vestite di abiti bianchi presi in prestito così che il loro status sociale non fosse identificabile, danzavano e cantavano e c’era chiaramente uno shidduch (fidanzamento) collettivo in pieno svolgimento – i giovani uomini dovevano scegliere tra le danzanti una sposa – e la tradizione rabbinica ha cercato di dare una spiegazione a questa ricorrenza attraverso storie di stupro, tombe, massacri, donne orfane che rivendicano diritti economici e così perdono il diritto di sposarsi fuori dalla tribù, guerra civile e ribellione sia all’interno del popolo ebraico sia contro un potere occupante e oppressivo. C’è da chiedersi il perché.
Mi viene da pensare a una recente discussione su Twitter in cui una persona si chiede: perché quel politico di spicco si esprime con tale razzismo? La risposta che suggerisce è che si tratti di un’elusione per distogliere l’attenzione da un fatto più grave: l’aver fatto sesso con minorenni. Qui la tradizione rabbinica offre una manifesta storia di giovani donne, nubili e forti, che si prendono lo spazio pubblico, si aiutano a vicenda con i vestiti e danzano e cantano tra i vigneti con sensualità, con tutto il simbolismo del vino, della ricchezza e della fertilità. E così, immediatamente arriva l’elusione: Beitar! Le figlie di Zelofcad! La storia forse più angosciante di tutta la Bibbia, quella di una giovane stuprata dal branco e uccisa, tagliata in dodici pezzi, ognuno dei quali fu inviato a una tribù di Israele! Peccato e morte e giacere nella tomba! Ribellione e massacro!
La mia idea è che i Tannaim (i rabbini della Mishnah, periodo 50-200 e.v.) fossero ben disposti nei confronti dei festeggiamenti di Tu b’Av, con il suo rituale di giovani donne che in una sera d’estate uscivano a godere del proprio corpo, della propria forza e della musica, mentre gli Amoraim (i rabbini della Gemara, periodo 200-500 e.v.) decisamente no. Così Tu b’Av divenne una data più spesso ignorata che celebrata. L’unica osservanza mantenuta fu di tipo liturgico: i Tachanun (la sezione penitenziale di preghiere di suppliche e confessioni) non vengono recitati a Tu b’Av. Solo dopo la fondazione del moderno Stato di Israele, Tu b’Av è tornato in auge, diventando una sorta di “San Valentino ebraico”: un giorno dedicato all’amore, ai matrimoni, al romanticismo. Di questa festività ebraica scrisse anche il poeta del XIX secolo Judah Leib Gordon, esponente della Haskalah, e certamente essa è prediletta da molti israeliani laici.
Merita un momento d’attenzione il punto della Mishnah che parla di Tu b’Av. È la stessa parte che menziona il giorno più solenne del calendario ebraico: Yom Kippur, lo Shabbat degli Shabbat, il Digiuno Bianco. A Yom Kippur le persone tradizionalmente indossano il kittel, la tunica bianca che serve da sudario ai defunti. È un giorno di penitenza ma anche di gioia, poiché se il pentimento è sincero, Dio concederà il perdono. Un giorno che trascorriamo sollevati dalle nostre incombenze, per ritornare più pronti a continuare le nostre vite.
Ci sono delle reali similitudini tra le due ricorrenze, malgrado una sia una giornata fuori dal tempo, quasi oltre la vita mortale, mentre l’altra una giornata di gioia sensuale. Entrambe ci ricordano l’importanza di vivere la vita nel modo più pieno possibile. Entrambe ci ricordano di vivere “qui e ora” e ci aiutano a plasmare il nostro futuro.
Rivendichiamo allora Tu b’Av, questo plenilunio che segue tre settimane di lutto, sei giorni dopo il giorno più nero del calendario. Ricordiamoci che la vita deve continuare, che la gioia deve essere parte della nostra esistenza, che le relazioni con l’altro sono importanti e che sta a noi creare il futuro.
[Traduzione dall’originale inglese di Silvia Gambino]