L’autore di “Anni di rabbia e di speranza” è scomparso il 2 agosto scorso
Non se n’è parlato tantissimo ma il 2 agosto di quest’anno è venuto a mancare un personaggio importante della storia ebraica, Corrado Israel De Benedetti. Aveva 93 anni e viveva nel kibbutz di Ruhama del Neghev. Era un sionista e non aveva perso la fede socialista delle origini, era membro della direzione del Partito Merez della sinistra israeliana. Con lui tramonta un esponente rilevante non solo del sionismo italiano ma anche di quella generazione di italkim che nell’immediato dopoguerra si recarono in Israele, appena fondato, per provare a vivere e mettere in pratica tutti quegli ideali su cui si erano formati. Anni di rabbia e di speranza, come si intitola il libro-testimonianza di De Benedetti, edito da Giuntina. Di rabbia ne aveva accumulata tanta e anche di spavento.
Nato a Ferrara nel 1927, a soli sedici anni fu uno degli arrestati in quella che fu ricordata come la più feroce persecuzione contro gli ebrei italiani, la lunga notte del ’43 tra il 14 e il 15 novembre. Florestano Vancini trasse da quella memoria tragica un film indimenticabile. In quella notte undici persone furono fucilate dai fascisti davanti al Castello estense, simbolo della città. Corrado rimase nel carcere di via Piangipane (lo stesso luogo dove ora sorge il Meis di Ferrara) fino al gennaio 1944 e dopo la liberazione iniziò a progettare la sua aliah in Israele.
Ma non solo la propria: entrato nel movimento sionista Hechaluz organizzò quella di moltissimi giovani, usciti dal fascismo senza famiglia o decisi a non restare in un paese che aveva tradito la loro fiducia e mandato a morte tanti parenti e amici. E qui la storia di De Benedetti si intreccia alla mia storia familiare, perché anche mia madre Roberta fu una di loro. Il nome di Corrado io lo conoscevo fin dall’infanzia, insieme a pochi altri che la mamma citava con affetto e stima. Ne parlava come di un fratello maggiore, tanto che pensavo che fosse molto più grande di lei, invece scopro che tra di loro c’era solo un anno di differenza, lei era del 1928. Ne parlava soprattutto con rispetto. Era andata a formarsi per la sua “salita” in Israele nell’Aksharà di Cevoli in provincia di Pisa, Tel Broshim, chiamato così per il viale di cipressi che saliva fino alla fattoria dal cancello di ingresso. De Benedetti invece risiedeva poco lontano, a San Marco, vicino a Pontedera. In aksharà avveniva una sorta di rito di passaggio, un rito di separazione dalla realtà italiana per prepararsi alla vita in Israele. Un training fisico ma anche psicologico. Mia madre parlava di quel periodo con una passione tale che ogni volta mi sembrava di esserci insieme a lei. Era stata addetta alla lavanderia. Indossava una tuta gialla da lavoro, appartenuta prima a chissà chi. I ragazzi lavoravano nei campi sotto la guida del fattore Pellegrino che cercava di insegnare a questi giovanotti borghesi i segreti dell’agricoltura. Ogni tanto loro, per darsi un tono, cercavano di imitarne il linguaggio, perfino di imprecare come lui. Allora Pellegrino si girava risentito e con fare minaccioso li redarguiva: “Se tu hai da bestemmiare, bestemmia li tua!” (bestemmia i tuoi). Pellegrino che fece arrivare da Roma la prima mucca dell’Aksharà, accolta con grandi festeggiamenti, come una divinità bovina, simbolo di stabilità e di ripresa.
Anni di rabbia e di speranze. Anni di articoli scritti sul giornale, di chiacchierate piene di entusiasmo, fino all’alba, di falò intorno al quale cantare in ebraico, quella lingua ostica che andava conosciuta per iniziare una nuova esistenza. Intorno a quelle fiamme stavano rannicchiati nel gruppo anche i sopravvissuti, poco più che bambini, tornati dai lager. Mia madre ricordava una coppia di diciottenni macilenti che si erano sposati appena usciti dal campo di sterminio e che non si staccavano mai, senza riuscire a comunicare con gli altri. Ricordava un bambino che non parlava, chiamato Meshullah (mancavano un po’ di sensibilità forse, significa lo scemotto), che aveva conosciuto chissà quali orrori e perso la famiglia al completo, trucidata dai nazisti. La prima parola che riuscì a pronunciare, davanti a uno di quei falò serali, fu proprio mamma, in yiddish. Poi scoppiò a piangere, un lungo pianto liberatorio. Quella notte piansero tutti, ricordando ciascuno le proprie perdite. Ma Cevoli e San Marco erano anche luoghi dove studiare il socialismo, il marxismo, la storia del sionismo che in Italia aveva generato più di un contrasto tra gli ebrei, come poi si vide nel Convegno di Livorno del 1924. C’erano quelli determinati a passare dalle parole ai fatti, come Enzo Sereni, come Ciro Glass, nato a Fiume, capo morale del movimento e morto giovanissimo. C’erano invece i sionisti all’acqua di rose, che contribuivano perlopiù alla causa di Herzl inviando denaro o aiutando quei profughi scappati dai paesi dell’est poi dalla Germania , in fuga da un antisemitismo che in Europa si faceva sempre più allarmante. Ma Mussolini, all’inizio favorevole al sionismo internazionale, chiese loro lealtà: o la patria o la Palestina e loro scelsero il regno. Rabbia. Perchè si sbagliavano. Con questa consapevolezza, con la morte dei familiari nel cuore e la speranza di fondare un paese incentrato sulla pace, partirono Corrado e Roberta. Solo che Corrado rimase e visse la faticosa integrazione nella dura realtà israeliana finendo per diventarne membro effettivo, mia madre non ce la fece a fare il salto e dopo meno di un anno tornò indietro per sposarsi con un italiano, rimpiangendo poi quel ritorno che la condannò alla nostalgia.
La morte di Corrado di Benedetti segna la fine di un’epoca, quella del kibbutz, del sogno di una comunità basata sull’uguaglianza e sulla convivenza pacifica. Sappiamo cosa è accaduto dopo. Molti valori si sono contaminati, involgariti, corrotti a contatto con la guerra e il dolore, o indeboliti. Ma quelli di Corrado no, è rimasto coerente fino in fondo. La sua scomparsa ci lascia un po’ orfani ma ci ricorda anche gli ideali fondanti veri che erano alla base dello Stato di Israele, quello in cui quegli italkim insieme a tanti altri credevano. E ci fa davvero sperare che quei sogni, come dice De Benedetti in un altro bel libro, passino davvero da una generazione all’altra, in eredità.
Sono molto addolorato e la notizia mi chiarisce le ragioni di un silenzio epistolare che già mi preoccupava da settimane. Se nutriste interesse, non mancherei di condividere anche con voi notizie che riguardano il percorso di vita, suo e della famiglia, nel faentino e nel brisighellese, negli anni “44 e “45.