Una vicenda romana lunga due anni, dal 4 giungo 1944 al 2 giugno 1946 raccontata con gli occhi di una bambina che si è salvata dalla guerra
Un anno fa usciva per i tipi di HarperCollins Una bambina e basta raccontata agli altri bambini e basta, con cui Lia Levi riprendeva in mano il suo romanzo d’esordio – Una bambina e basta (1994) – e lo rinarrava per piccoli lettori. In continuità con il progetto “per bambini e basta” esce adesso per il medesimo editore il proseguimento di quel libro, con il titolo Tutto quello che non avevo capito. Una bambina e basta cresce. Come in Una bambina e basta raccontata agli altri bambini e basta la narratrice miscela lo sguardo onnisciente della persona anziana e del narratore che ha sotto gli occhi in ogni momento l’intera vicenda con lo sguardo della bambina che si rivolge ai coetanei. Ne deriva un dialogo continuo in cui il flusso della narrazione di tanto in tanto si interrompe per dare la possibilità all’autrice di rispondere a possibili dubbi o obiezioni. A impreziosire il volume le belle illustrazioni di Zosia Dzierżawska e, in appendice, l’album dei ricordi di Lia con alcune fotografie degli anni 1943-1948.
Dove ci eravamo lasciati? La scrittrice attacca precisamente dalla conclusione del libro precedente, cioè il 4 giugno 1944 con la liberazione di Roma da parte degli Alleati e l’uscita dal convento in cui era rifugiata. Il lasso di tempo che la vicenda copre è di due anni, uno con la guerra che ancora infuria nel Nord Italia e altrove, l’altro pieno di difficoltà, progetti e speranze culminanti con la vittoria della repubblica al referendum istituzionale del 2 giugno 1946. È la storia di una bambina “un po’ cresciuta che, insieme alla acquistata libertà, si aspetta dalla vita solo girandole luminose”. Ma è anche una storia che contiene piccoli tesori su cui chi da poco tempo è autonomo nella lettura viene invitato a riflettere. Per esempio, a che cosa serve un libro? Non a stabilire che cosa sia giusto e che cosa sbagliato, suggerisce Lia Levi, ma ad aiutare “ognuno di noi, scrittori e lettori insieme, a provare a ragionare su cos’è la vita con i continui interrogativi che ci pone”.
Se tema ricorrente nell’opera della scrittrice di origine piemontese è la rottura della quotidianità – con le leggi razziste che nel 1938 dividono gli italiani in due gruppi: gli ebrei discriminati da una parte e tutti gli altri dall’altra – qui vediamo invece in scena il ritorno alla normalità. Con la fine dell’occupazione tedesca, delle deportazioni e della vita sotto falsa identità vecchie amicizie si rinsaldano e di nuove ne vengono create. E con loro una serie di piccoli problemi e piccoli stratagemmi per superarli. Si parla molto di scuola con le sue lezioni, i suoi temi e i suoi voti, le solidarietà e anche le rivalità tra compagni di classe. Si parla anche di identità ebraica dopo l’ondata delle persecuzioni. Lia riferisce delle lezioni per il bat mitzvà con un rabbino tanto dotto quanto incapace a comunicare e insegnare. Quando il maestro si addormenta mentre la bambina che ha di fronte legge stentatamente i caratteri ebraici, ecco saltare fuori testi certamente più ameni di quelli composti dalla serie incomprensibile di lettere quadrate, Le avventure di Tom Sawyer per esempio. “Una volta ho provato a recitare La vispa Teresa… Niente, nella stanza continuava ad aleggiare quel pacifico silenzio”.
L’ambiente ebraico di Roma peraltro non è facile, tanto più per chi viene dal Nord con un accento inevitabilmente riconoscibile. Alla scuola ebraica già prima della guerra non era stato tutto rose e fiori, ma la legislazione antisemita non rendeva possibili alternative. Quando però nel 1945 le difficoltà economiche convincono nonna Giorgina a girare per negozi offrendo smalti e rossetti americani, succede un fatto memorabile. Un giorno la nonna si spinge fino al ghetto, entra in un negozio e vista la catenina con la stella ebraica al collo dell’ombroso negoziante gli dice con entusiasmo di essere ebrea anche lei. “Tu non sei ebrea per niente”, la risposta minacciosa del tipo, “non stamo qui a fa’ scherzi”. La nonna insiste ma l’altro si convince soltanto quando le sente ripetere lo Shemà. Finisce che lo recitano per intero insieme.
Giugno 1946, la quarta ginnasio sta per terminare ma unanime fervore in classe e fuori va alle elezioni che stabiliranno l’assetto istituzionale: monarchia o repubblica? Come si può immaginare che, dopo tutto quanto accaduto con il fascismo, la dittatura, il colonialismo, le leggi razziste, una guerra mondiale disastrosa e infine la fuga di fronte all’invasione degli ex alleati tedeschi, si chiede Lia Levi, come si può immaginare che qualcuno sia ancora disposto a votare per la monarchia? Eppure qualcuno c’è, anzi molti. Come il paese, la classe si trova divisa in fazioni, con amicizie che si rompono e altre che si creano, tumulti e sorprese. Per non avere nulla da spartire con gli avversari molti chiedono di essere spostati di banco. Avvampano discussioni feroci. L’atteso giorno del referendum arriva; poi passa. L’Italia rimane un paese diviso, ma intanto è diventata una repubblica. Le passioni si smorzano, tutto o quasi rientra nella normalità. Anche i fili di alcune amicizie interrotte vengono riannodati, mentre amicizie dettate dall’impeto politico si esauriscono come un fuoco di paglia – una grande fiammata ed è già spento. Nello stesso torno di tempo arriva l’adesione agli scout, occasione per nuove esplorazioni e nuove avventure. L’amicizia, conclude Lia Levi, può essere profonda ma spesso anche capricciosa e imprevedibile.