Se proselitismo significa diffondere le leggi noachiche… Idee per un mondo giusto
Sette leggi per l’umanità
Un non ebreo può essere giusto? La domanda si fa interessante se si cerca di rispondere prendendo a riferimento la tradizione rabbinica. Questa è stata infatti a lungo accusata di particolarismo, di trascurare cioè nelle sue discussioni e nei suoi dettami l’afflato universalista di buona parte della letteratura ebraica antica, a partire dai libri dei profeti, per concentrarsi unicamente sulla halachà – letteralmente via, cammino, strada – riservata al solo popolo ebraico. Eppure sono proprio le discussioni rabbiniche di cui rende conto il Talmud a codificare sette regole che dovrebbero essere seguite da tutti gli esseri umani, ebrei e non ebrei senza distinzioni. Ciò non toglie, naturalmente, che gli ebrei siano tenuti a rispettare anche le 613 mitzvot ricevute con la Torà. I sette principi sono conosciuti come le leggi date ai figli di Noé/Noach, o leggi noachidi, perché ne troviamo le prime vestigia nel patto che Dio stringe con Noach dopo il diluvio, raccontato nel libro di Genesi/Bereshit. Queste leggi, concesse a Noach e alla sua discendenza, quindi a tutti i popoli della terra, prima dell’alleanza tra Dio e Abramo da cui trae origine il popolo ebraico, costituiscono la base dell’etica universale. Proprio nel momento in cui Dio promette all’uomo che non verrà mai più un altro diluvio, la tradizione ha riconosciuto le fondamenta dei pilastri su cui ogni tipo di convivenza umana deve essere edificata. I sette principi proibiscono il furto, l’omicidio, la profanazione del nome di Dio, l’idolatria, il consumo di carne presa a un animale vivo, l’adulterio e obbligano a formare corti di giustizia e a nominare giudici. Il loro rispetto è sufficiente all’uomo per meritare il nome di giusto.
Anche se la lista completa dei sette precetti compare in più luoghi della letteratura rabbinica, il concetto di leggi noachidi rimanda al testo biblico. Bereshit, molto prima del patto di Abramo e dell’assunzione della Torà sul Sinai, fa riferimento alle idee di giustizia e ingiustizia. La generazione del diluvio è infatti definita malvagia, Noach invece è chiamato giusto e integro. La tradizione ha dedotto che fin dalle origini dell’umanità, o almeno della società civile, devono essere esistiti principi etici la cui osservanza o inadempienza permetteva di considerare gli uomini, a qualunque popolo o insieme sociale appartenessero, giusti o ingiusti. E’ significativo che il patto tra Dio e Noach venga suggellato con l’arcobaleno, un segno che sembra unire simbolicamente dall’alto terre su cui vivono popoli diversi. L’arco tra le nuvole ricorderà a tutti senza distinzioni il patto perpetuo tra Dio e gli esseri viventi.
Secondo il Talmud i sette principi non sono soltanto sette regole, ma ciascuno di essi comprende un intero capitolo di leggi. E’ degno di nota che sei precetti siano negativi, prescrivano cioè che cosa gli uomini non devono fare. L’unico invece positivo, che indica che cosa fare, è l’obbligo di amministrare la giustizia in modo equo e trasparente attraverso tribunali appositamente nominati. Emerge qui una duplice esigenza: da una parte di bloccare la spirale di violenza a cui porta il desiderio tutto umano di vendicare in prima persona il torto subìto, dall’altra di sottrarre l’amministrazione della giustizia all’arbitrio del più forte, con cui perderebbe il carattere di equità che deve invece essere suo proprio. Una norma proibisce una forma di mangiare che, ricondotta a un mitico e oscuro passato, viene posta al di fuori dei confini della civiltà; quattro riguardano il rapporto tra uomo e uomo; due quello tra uomo e divinità. Nello stesso tempo, è molto significativa l’assenza di un comandamento che prescriva di adorare Dio. Secondo Eric Fromm (Voi sarete come dei, Ubaldini) i due principi che regolano il rapporto tra uomo e Dio, il divieto di bestemmia e di idolatria, rappresentano una teologia negativa: non bestemmiare e non adorare idoli. Più radicalmente, possiamo suggerire che le due proibizioni siano in realtà una sola: non parlare di Dio, perché in questo caso lo si intenderebbe staticamente, dunque come idolo, ma rivolgersi a Dio, cioè al Dio dinamico della storia. E’ questa attitudine fondamentale che spiega l’assenza di una teologia, cioè letteralmente di un discorso su Dio, nella tradizione ebraica. La stessa adorazione di Dio, a ben vedere, comincia con la negazione dell’idolatria. Ed è in questa teologia negativa che va rintracciato, per Fromm, “lo stesso spirito rivoluzionario di libertà che caratterizzò il Dio della rivoluzione contro l’Egitto”.
Due dei sette principi, il divieto di omicidio e di mangiare brani di un animale vivo, sono espressi in modo chiaro nel testo di Bereshit, gli altri invece sono stati dedotti dalla tradizione. In una pagina del trattato talmudico Sanhedrin rabbi Yochanan ricava le leggi noachidi dal versetto “Ordinò il Signore Dio all’uomo dicendo: da ogni albero del giardino mangiare mangerai”. Secondo Yochanan a ogni parola del versetto corrisponde uno dei sette precetti. “Ordinò” indica l’istituzione di corti di giustizia; “Signore” la proibizione della profanazione del nome divino, cioè della bestemmia; “Dio” il divieto dell’idolatria; “uomo” la proibizione dell’omicidio; “dicendo” la proibizione dell’adulterio (secondo alcuni rabbini, che citano per esempio la storia di Giuseppe e della moglie di Potifar, rivolgere la parola a una donna sposata rappresenterebbe il primo passo verso l’adulterio); “da ogni albero del giardino” l’interdizione del furto; “mangiare mangerai” il divieto di consumare la carne di un animale vivo.
Come noto, l’ebraismo non prevede il principio di convertire i popoli per portarli a osservare le mitzvot della Torà. Numerosi passi dei libri profetici contengono però appelli, rimproveri e invettive contro i popoli cananei, accusati di violenza, rapina, idolatria e bestemmia, usanze rituali sanguinose: insomma, di violare i principi universali dati ai figli di Noach. D’altro canto, il Tanakh ritrae figure di uomini giusti che non fanno parte del popolo ebraico, ma che onorano le leggi di base della convivenza civile. Lo straniero, per la tradizione, è benvenuto in terra di Israele a patto che rispetti le sette norme. Maimonide nel Mishnè Torà spiega chiaramente che “Mosè nostro maestro dette la Torà e le mitzvot solo a Israele e a chi, tra gli altri popoli, spontaneamente vi voglia aderire. Nessuno può essere costretto a adottarle con la forza. Ciò che invece tutti gli esseri umani devono accettare, come principi di rivelazione divina, sono i precetti ordinati ai figli di Noach”. Chi adotta queste leggi, prosegue il pensatore spagnolo riprendendo una formulazione talmudica, rientra tra i chasidei umot haolam, gli uomini pii delle nazioni “che avranno parte nel mondo a venire”. Siamo di fronte a un riconoscimento evidente dell’origine comune e dell’uguaglianza fondamentale degli uomini.
In età moderna e contemporanea sono stati molti i pensatori ebrei, da Spinoza a Moses Mendelssohn, a soffermarsi sulle leggi noachidi. Hermann Cohen, tra i principali esponenti della filosofia neokantiana in Germania tra Ottocento e Novecento, nella Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo (San Paolo) incardina sui setti principi il concetto ebraico di amore per lo straniero. Secondo Leo Baeck è noachide ogni abitante della terra, a patto che non si sottragga ai doveri basilari di civismo, monoteismo, umanità. In Italia è stato il rabbino di Livorno Elia Benamozegh a soffermarsi sulle norme elementari e universali del noachismo. Come scrive nel volume Israele e l’umanità. Studio sul problema della religione universale (Marietti), “l’Universo è la gran casa di Dio, Dio è padre di tutti i popoli. Questi sono i figli, destinati ognuno alla sua vocazione”. Elio Toaff, rabbino capo della comunità ebraica di Roma per tutto il secondo Novecento, reputa i principi dati ai discendenti di Noach le “leggi costituzionali dell’umanità”, e sottolinea come non impongano alcun dogma, sistema di vita o di pensiero. Per questo uno degli scopi dell’ebraismo è il proselitismo non alle norme della Torà, ma al noachismo con i suoi principi etici essenziali a cui nessuna società civile potrebbe rinunciare. L’idea secondo cui occorre, da un punto di vista ebraico, impegnarsi per diffondere a tutta l’umanità le sette leggi percorre la tradizione da Maimonide a oggi. Nel 1983 il rebbe di Lubavitch Menachem Mendel Schneerson ha addirittura lanciato una campagna mondiale per informare i non ebrei del lascito dato da Dio agli uomini dopo la distruzione portata dal diluvio.
Come si conciliano talune affermazioni cabalistiche “su D-o” con l’ipotesi di un divieto di parlare di D-o e la conseguente assenza di una teologia (come discorso su D-o) cui si fa cenno nell’articolo?
Articolo davvero interessante. Mi piacerebbe un ulteriore approfondimento fra i sette principi di Noè e i comandamenti dati a Mosè.