Tabù, pregiudizi e storia della lingua a proposito dell’uso della parola “ebreo” e della locuzione “di origini ebraiche”
Le parole e i tabù. Un’interessante risposta alla domanda:
Il politicamente corretto nel linguaggio quotidiano può essere veramente un antidoto all’antisemitismo?
di Sara Natale Sforni, filologa e storica della lingua italiana, attualmente assegnista di ricerca presso l’Istituto del CNR “Opera del Vocabolario Italiano”.
Se per “politicamente corretto nel linguaggio quotidiano” si intende la diffusa sostituzione del termine “ebreo” con la perifrasi “di origini ebraiche” la risposta è più che negativa: il politicamente corretto nel linguaggio quotidiano rischia addirittura di nuocere al contrasto dell’antisemitismo.
Di questo fenomeno mi sono occupata un paio di anni fa, interpretandolo come il risultato, tanto benintenzionato quanto maldestro e inefficace, della tabuizzazione politicamente corretta di una parola talmente sporcata dalla frequenza delle accezioni spregiative e dell’accostamento di aggettivi peggiorativi da poter essere sentita (certo non unanimemente) come una parolaccia anche in sé, indipendentemente dal significato e dal contesto.
Il primo problema posto da questa sostituzione tanto di moda è di natura semantica: un ebreo non ha necessariamente origini ebraiche, potendo essere un convertito all’ebraismo senza alcuna ascendenza ebraica, e, viceversa, una persona di origini ebraiche non è necessariamente ebrea (secondo l’Halakhah), potendo avere un’ascendenza ebraica interrotta per via matrilineare.
La perifrasi è, poi, problematica, in quanto potenzialmente ambigua, sul piano concettuale. L’espressione sembra, infatti, esemplata sul tipo “italiano di origini marocchine” (a fronte del politicamente scorretto, se riferito a una persona in possesso della cittadinanza italiana, “marocchino”) e pare, dunque, accreditare l’erronea assimilazione della parola “ebreo” agli aggettivi di nazionalità (niente ha a che fare l’appartenenza alla “nazione ebrea”, come veniva un tempo chiamata la comunità ebraica, con l’appartenenza a un moderno stato nazionale), con la conseguenza paradossale di rafforzare lo stereotipo antisemita dell’inconciliabilità tra identità, per esempio, italiana e identità ebraica.
Infine, a dimostrazione dell’inefficacia di questa tabuizzazione, c’è lo scarso successo delle analoghe sostituzioni operate a ridosso dell’emancipazione dagli ebrei europei, che cominciarono a definirsi con gli esiti di israelita(m) nel tentativo, fallito, di liberarsi dei significati offensivi assunti nel corso del tempo dalle continuazioni di iudaeu(m) e, in minor misura e più recentemente, di hebraeu(m). Risultato: durante il secolo scorso la famiglia lessicale di “israelita”, a differenza dei pregiudizi antisemiti, è caduta in disgrazia in tutta Europa, sopravvivendo solo presso parlanti particolarmente conservativi e nell’onomastica di alcune istituzioni (come l’Alliance Israélite Universelle o i molti enti assistenziali e educativi “israelitici”).
Ma l’aspetto più interessante di questa breve voga è un altro: mentre gli ebrei italiani si sono riconciliati da tempo con la parola “ebreo” (nel 1989 l’“Unione delle Comunità israelitiche italiane” è diventata “Unione delle Comunità ebraiche italiane”), il termine “giudeo” (a differenza del francese juif, dello spagnolo judío, dell’inglese Jew etc.), sebbene usato come autoetnonimo nelle parlate degli ebrei d’Italia («Io sò iodìo romano» scriveva il poeta ebreo romano Crescenzo Del Monte), è rimasto proscritto.
La riabilitazione di “ebreo” e non di “giudeo”, pure accomunati dagli usi spregiativi, la dice lunga sulla singolarità delle questioni linguistiche. Rifiutare, insomma, una delle tante strategie linguistiche che il politicamente corretto mette in atto per arginare fenomeni che, come nel caso dell’antisemitismo, minano le basi della convivenza civile, non significa avallare una libertà di espressione illimitata. Si tratta, piuttosto, di conoscere a fondo gli usi linguistici del passato e del presente per limitare la censura alle parole usate come insulto da sempre o da troppo tempo perché il parlante medio possa serbare memoria delle accezioni non peggiorative.
Sebbene, infatti, nell’italiano moderno e nei suoi dialetti il termine “ebreo” sia usato, analogamente a “giudeo”, anche con il significato di ‘avaro’ e di ‘avido’ (in conseguenza della diffusione presso gli ebrei dell’attività creditizia, peraltro praticata anche dai cristiani), nelle rare occorrenze che ha nella lingua antica, al pari dell’ancor più raro “israelita”, viene generalmente risparmiato dagli usi impropri, forse perché di solito riferito ai contemporanei dei venerabili (anche dal punto di vista cristiano) patriarchi e profeti.
Viceversa, anche quando non sono accompagnati da epiteti come “cani”, “maledetti”, “malvagi”, “meschini”, “perfidi”, “pessimi” etc., i “giudei” dei testi italiani antichi sono i deicidi contemporanei di Cristo e i loro discendenti medievali e, dunque, per lo più ostinati (nella negazione della Verità), spietati, invidiosi, falsi e traditori come Giuda Iscariota (confuso, quest’ultimo, con il Giuda capostipite dell’omonima tribù). Le donne della lirica amorosa due-trecentesca sono definite “giudee” quando dure di cuore e ostili all’amante.
Alla luce di questa secolare demonizzazione, si capisce, dunque, l’inopportunità di riabilitare un termine così compromesso da essere significativamente e scientemente preferito a “ebreo” in epoca fascista. In questo caso, quindi, l’esclusione “politicamente corretta” è del tutto condivisibile: come è giusto non usare più la parola “negro”, a dispetto degli usi neutri del passato (dai “negri”, per lo più ‘poveracci’ ebrei, delle parlate giudeo-italiane agli “altissimi negri” di Edoardo Vianello), in ragione della percezione attualmente più diffusa, cioè per evitare fraintendimenti, così bisogna abbandonare al suo destino il termine “giudeo”, ormai irrimediabilmente guastato, limitandone l’uso a tecnicismi come le etichette linguistiche (per esempio, appunto, “giudeo-italiano”).
Naturalmente senza illudersi di eliminare i pregiudizi antiebraici per via di tabuizzazione linguistica: l’unico vero antidoto all’antisemitismo è l’istruzione, l’insegnamento della storia del popolo ebraico (poco nota agli stessi ebrei o nota attraverso la lente deformante delle ideologie, sia laiche sia religiose, che offrono una visione semplicistica e dogmatica dell’ebraismo), testimoniata anche dal lessico antisemita. Sarebbe, quindi, un grave errore far sparire parole e accezioni spregiative dai vocabolari, compromettendo così la loro fondamentale funzione documentaria e la nostra possibilità di conoscere la storia attraverso la lingua.
Sara Natale Sforni
Un articolo molto interessante. Vorrei chiedere a Sara Natale Sforni un’analisi altrettanto dotta sull’uso attuale – assai distorto – dei termini sionista, sionisti, sionismo. Grazie