Il gioco di incroci, ibridazioni e proliferazioni delle fonti rabbiniche
In uno dei suoi più celebri racconti sui paradossi dell’erudizione (nel qual caso, i principi di classificazione dell’universo), Jorge Luis Borges cita di terza mano una sedicente enciclopedia cinese, l’Emporio celeste di conoscimenti benevoli, che propone una tassonomia degli esseri viventi piuttosto destabilizzante per la mente occidentale:
Nelle sue remote pagine è scritto che gli animali si dividono in (a) appartenenti all’Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che s’agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche.
(da “L’idioma analitico di John Wilkins”, in J.L. Borges, Altre inquisizioni, 1952)
La cosiddetta mente occidentale può reagire in due modi alla discontinuità cognitiva di questa vertiginosa lista, per dirla con Umberto Eco: cachinnare al suo esotismo randomico o (/e?) incantarsi allo stesso. La seconda attitudine––già d’ispirazione al classico sull’archeologia del sapere Le parole e le cose di Michel Foucault––è con ogni probabilità quella che ha portato chi legge a cliccare su questa pagina. A proposito di uomini che classificano animali, il lettore affezionato si aspetterà un’immersione nell’enciclopedismo randomico non di immaginari libri cinesi, bensì degli scritti rabbinici quali Mishnah, Talmud, Midrash––a ragione.
Partiamo da due assunti, anzi tre. (a) Che per il lettore italiano le cose rabbiniche, tra quelle ebraiche, fanno parte della vaga categoria dell’esotismo, anche in forza dei loro contenuti spesso spiazzanti a confronto della forma mentis classico-rinascimentale. (b) Che le formae mentis, tanto classico-rinascimentale quanto rabbinica, tentano di assorbire il mondo attraverso una “classificazione dell’universo che non sia arbitraria e congetturale,” come riporta Borges nel racconto di cui sopra. (c) Che è buona prassi post-moderna tentare di stendere un ponte la forma dell’abitudine consolidata e le forme che non sappiamo come pensare––sia mai che la contaminazione sia produttiva, o almeno sfiziosa. Per collegare i tre punti, il tema della comprensione umana del mondo animale e conseguente sistema di classificazione degli esseri viventi (umani compresi) è sia produttivo che sfizioso. Per praticare l’umiltà autoriale post-moderna, in onore di Borges, lo faremo a partire da un libro––stavolta vero––di recente pubblicazione: When a Human Gives Birth to a Raven. Rabbis and the Reproduction of Species (Quando un umano dà alla luce un corvo. I rabbi e la riproduzione delle specie) di Rafael Rachel Neis, che dirige il Programma Interdipartimentale in Storia antica ed è titolare della cattedra Samuel Frankel in Studi rabbinici della Michigan University.
La materia prima di questo studio accademico sono i testi composti dai membri della classe rabbinica nella Palestina romana dei secoli II e III e.v. In particolare, Neis prende in esame brani da trattati della Mishnah, della Tosefta e dei commentari giuridici sulla Bibbia dedicati a questioni di impurità e purità rituale. Va ricordato che, in questa fase e in questo contesto, a differenza dell’idea cristiana di purezza come allegoria di virtù morale, la concezione ebraica di im/purità si riferisce a un meccanismo di contagio fisico, per quanto non necessariamente visibile, che può rendere vulnerabile l’integrità di cose, animali e persone. Da cui derivano, da una parte, il dovere di astensione (come nel caso della consumazione di animali impuri quali conigli, squali, civette o la commistione deliberata di tipi animali o vegetali differenti) e, dall’altra, la necessità di purificazione, laddove l’impurità sorga da contingenze ordinarie della vita (come la perdita di liquidi biologici quali sangue mestruale e sperma, la comparsa di patologie dermatologiche o il contatto con un cadavere). Non stupisce dunque che i testi dove umani e animali si incontrano, a volte (notevoli volte) con confini poco definiti, siano proprio quelli vòlti a stabilire (non sempre inequivocabilmente) le direttive pragmatiche del puro e impuro in una pletora vertiginosa (piuttosto vertiginosa) di casi, possibilità ed evenienze. Ne emerge una visione del mondo dove “ricchezza, variabilità o ‘insuccesso’ ” (p. 52) costituivano effetti parimenti possibili e plausibili nella generazione della vita––animale e umana.
Il titolo del volume richiama l’istanza forse più sorprendente dell’approccio fluido e multidirezionale dei rabbi alla tassonomia dell’esistenza. Nel trattato Niddah (Mestruante) della collezione giuridica che prende il nome di Tosefta, si legge di questo precedente:
Vi fu il caso di una donna di Sidone che, per tre volte, espulse quello che aveva la sembianza di un corvo. Il caso fu portato a giudizio dei sapienti che decretarono: ciò che non ha l’aspetto di essere umano non può essere considerato prole.
(Tosefta, Niddah 4:6)
Nel commento al brano, Neis mette in luce sia il contesto sia la portata del brano. Anzitutto, il “caso” di Niddah necessita di parere rabbinico non per la perplessità scientifica di un’umana che dà alla luce un volatile, ma per la catena di dubbi ortoprattici che l’inusuale accadimento innesca: questo essere dalle sembianze di corvo partorito da una donna è da considerarsi umano per essere uscito da un’umana? Se sì, essendo nato morto, va trattato come un cadavere umano (che produce impurità e dunque richiede purificazione da parte di chi lo ha toccato)? E, se viene considerato umano, la donna di Sidone sarà ella stessa in stato di impurità in quanto puerpera? La risposta “ciò che non ha l’aspetto di essere umano non può essere considerato prole” fuga solo in parte ai dubbi impliciti: sembianza e aspetto non sono forse categorie di percezione universali, se per alcuni sapienti la sembianza umana si riconosce nella forma dei bulbi oculari mentre per altri nella fisionomia facciale. E qui arriviamo alla portata del brano. Se è vero che sembianza e aspetto––demùt e tzurà in ebraico––sono il marchio che accomuna l’essere umano a Dio (vedi Genesi 5:1: “Quando Dio creò l’uomo, lo fece a sembianza di Dio”) e lo distingue in termini di privilegio al resto delle creature, è anche vero che il creato è e può essere più complicato di quanto il cosmo biblico cerchi di far credere.
I principi di somiglianza e differenza, indispensabili per catalogare in gruppi funzionali la molteplice popolazione terrestre, danno vita a una costellazione di sovrapposizioni e innesti che il pensiero rabbinico prende in considerazione al fine di costruire la propria visione del mondo. Il volume di Neis restituisce una lettura di questi dibattiti attraverso le lenti della storiografia classica, con puntuali riferimenti al contesto del pensiero naturale greco-romano contemporaneo alle fonti ebraiche, così come da quelle della critica contemporanea di queer theory, studi sulla disabilità e animal studies, con il vantaggio di mettere in luce bias e contraddizioni ancora insite negli studi ebraici contemporanei.
L’analisi delle fonti rabbiniche si dispone lungo tre direttrici: (a) le modalità con cui i rabbi cercavano di ordinare la realtà attorno a sé sulla base di somiglianza, differenze e molteplicità; (b) le risultanti proposte di classificazione in “specie”, o tipologie (min) di esseri viventi; (c) le forme attraverso cui gli esseri viventi potevano essere generati. Tra le creature oggetto di riflessione ontologica e produzione testuale da parte dei rabbini troviamo non solo corvi figli di donne, ma anche mucche che figliano asini, muli nati il sesto giorno della genesi, uomini selvatici, sirene, spiriti partoriti da Eva e spiritesse partorite da Adamo, demonesse intersex. Il volume restituisce in formato accademico il gioco di incroci, ibridazioni e proliferazioni proprio delle fonti rabbiniche stesse, riscattandole dal pregiudizio contemporaneo di “esercizi di casuistica scolastica, ipotesi legalistiche e sperimentazioni intellettuali” in virtù del presupposto che, se i testi ne danno conto, tutti quegli esseri viventi “assurdi o implausibili”––troppo vari e aleatori per essere contenuti dalle etichette di Linneo––“dovevano contare” (p. 196).
Ilaria Briata è dottore di ricerca in Lingua e cultura ebraica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha pubblicato con Paideia Editrice Due trattati rabbinici di galateo. Derek Eres Rabbah e Derek Eres Zuta. Ha collaborato con il progetto E.S.THE.R dell’Università di Verona sul teatro degli ebrei sefarditi in Italia. Clericus vagans, non smette di setacciare l’Europa e il Mediterraneo alla ricerca di cose bizzarre e dimenticate, ebraiche e non, ma soprattutto ebraiche.