La storia e la filosofia di vita del celebre chef Uri Jeremias: “L’unico modo per garantire un futuro alle prossime generazioni è che le persone imparino a vivere insieme e a rispettarsi a vicenda”
Per gli amanti della cucina israeliana dal 1997 Uri Buri rimane uno di quei pilastri indistruttibili per cui vale una gita fuori porta fino ad Acco. Eppure, nel 2021 – nel corso del quinto conflitto tra Israele e Gaza, a seguito del quale si erano verificati pesanti scontri tra ebrei e musulmani, anche all’interno delle città miste – qualcuno aveva dato fuoco alle mura di questo storico ristorante, cercando di distruggere non solo l’attività del celebre chef Uri Jeremias, ma anche l’ormai storico simbolo di convivenza che questo ristorante rappresentava da decenni, sia per la ricchezza culturale dello staff che tra gli assidui frequentatori.
Oggi, a distanza di tre anni, non si è ancora scoperto chi sia stato il colpevole. Ciò nonostante, Jeremias, già il giorno dopo l’incendio, aveva dichiarato a tutti i media nazionali: “non so chi abbia appiccato il fuoco ma so chi mi ha aiutato a spegnerlo: la nostra comunità di Acco, di ebrei ed arabi, uniti.”
Dopo impegnativi lavori di ristrutturazione, già nel 2022 Uri Buri aveva riaperto i suoi battenti accogliendo, come sempre, le diverse comunità che vivono ad Acco e nel nord di Israele. A distanza di due anni, e nel mezzo di quello che ormai è il settimo conflitto con Gaza, questo ristorante continua a simboleggiare un luogo iconico di convivenza.
Il quotidiano Haaretz è andato ad intervistare lo chef Jeremias per riflettere su quanto era accaduto allora e quanto, oggi più che mai, questo luogo abbia assunto un ruolo fondamentale nel rappresentare l’unione tra ebrei e arabi israeliani, sempre più forte dopo il 7 ottobre. Tanto che alla domanda, cruciale, del perché avessero dato fuoco proprio a Uri Buri, Jeremias spiega che il ristorante era stato bruciato proprio per ciò che rappresentava, ovvero un’icona di convivenza: “È stato come bruciare una bandiera, un simbolo. Per usare un’iperbole, mi sarei quasi offeso se avessero bruciato altri posti e non il mio. Ma non mi sono dato per vinto. Dal mio punto di vista, io ho sempre fatto ciò in cui credo e in cui continuo a credere. Per questo, dopo essermi accertato di salvare la vita della mia squadra e dei clienti che erano al ristorante, non ho aspettato un giorno per cercare di riaprire il più velocemente possibile. Sono, di indole, un ottimista. Una persona che quando arriva a un bivio e deve decidere, sceglie sempre la parte della luce e della speranza, e mai il lato della disperazione. Chiudere il ristorante avrebbe fatto il gioco dei rivoltosi. Sarebbbe stato come dar loro un premio, oltre a punire i nostri ospiti, che vengono da tutto Israele e da tutto il mondo. Soprattutto sarebbe stato come punire l’intera città di Acco. Se, dopo tutto quello che il ristorante ha rappresentato nel corso degli anni, non avessi riaperto, questo avrebbe avuto un impatto devastante su tutto il tessuto della vita sociale e culturale di Acco. E io non ho mai smesso un secondo di credere in questo incredibile luogo di convivenza”.
Quando il giornalista Rotem Maimon gli domanda se forse uno degli scopi dell’attacco fosse stato proprio quello di fargli smettere di crederci, Jeremias risponde che proprio per questo non si sarebbe mai dato per vinto: “Non si tratta di credere in Acco, ma nello Stato di Israele. Per me, l’unico modo possibile per garantire un futuro alle prossime generazioni è che le persone imparino a vivere insieme e a rispettarsi a vicenda come dichiarato nella Dichiarazione d’Indipendenza. È il miglior antidoto contro tutti gli estremisti. L’estremismo, infatti, è un corpo canceroso che opera in modo sproporzionato rispetto al suo peso nella popolazione, proprio per sconvolgere la vita di tutti i giorni. Ad Acco ci siamo sempre sentiti ‘protetti’, perche’ qui c’erano più persone che desideravano una vita in condivisione rispetto a quelle che non la volevano”.
Jeremias non ha tardato a riflettere anche sui diversi problemi di criminalità che spesso riguardano la società araba israeliana, specie all’interno della stessa comunità, tra i giovani, spesso frustrati, talvolta sfruttati da spacciatori e criminali perché minorenni e, in quanto tali, non perseguibili per legge. Anche per questo per il rinomato chef un luogo come Uri Buri rappresenta per questi giovani proprio un esempio di opportunità di lavorare in un contesto di convivenza e di fiducia tra gli uni e gli altri: “Chiunque venga assunto qui sa esattamente dove sta andando a lavorare. Ho costruito un microcosmo di convivenza e coloro che lo trovano inadatto non verranno mai a lavorare qui. Anche perche’ ad Acco non c’è alternativa. Non esiste un luogo in cui poter dire: ‘Lavorerò solo in un posto dove non ci sono arabi, né donne, né gay, né non so cosa…’. Qui, semplicemente, non esiste”.
Jeremias è nato nella vicina cittadina di Nahariya, nel 1944, da genitori scappati dalla Germania nazista e ancora oggi, a ottanta anni, vive nella stessa cittadina con sua moglie Yael. È cresciuto in una casa “insolita”, dice, quindi non ha avuto altra scelta che diventare una persona “insolita”: “Era una casa sempre aperta che prendeva anche bambini in affidamento, quando all’epoca non esistevano ancora istituti o altri posti simili. Era sempre piena di bambini che a volte stavano con noi per anni, inclusa una ragazza araba di Acco che, ancora oggi, è per me come una sorella”.
Ovviamente in questi giorni bui Uri Buri soffre drammaticamente, come tutto il settore dell’accoglienza, della totale mancanza di turismo. Ma in sua assenza, sono gli israeliani che, da tutto il Paese, continuano a riempire le tavole di Jeremias: “Molti hanno sentito il bisogno di venire a sostenerci per mostrare solidarietà e ringraziarci per non aver mai gettato la spugna”. Oltre ad un incredibile dose di ottimismo, anche la sua passione per il cibo e per la tavola accompagna la sua vita da anni. Il menù, specializzato in pesce e frutti di mare, presenta sempre gli stessi piatti classici, con piccole modifiche qua e là, e comprende solo piatti che Jeremias ama mangiare lui stesso.
Da anni non mancano la solita zuppa di funghi, il sashimi di salmone in salsa di soia con sorbetto al wasabi, la zuppa densa di pesce nel latte di cocco, il barramundi alla griglia, gli anelli di calamari, le cozze in salsa di panna e “riso bianco della nonna”. Tradizione ed innovazione, tanto che nel frattempo Jeremias è diventato anche uno dei proprietari di una startup che si occupa di food tech, con una grande attenzione nei confronti dell’ambiente e degli animali, specializzandosi nella produzione vegan-friendly. Nel team è il responsabile sia dell’aspetto culinario che del reclutamento degli investitori e degli esperti nel settore. Si potrebbe descrivere Jeremias come un visionario, sia in cucina che in politica. Del resto, la tavola, per definizione, è sempre stato uno dei più importanti momenti di condivisione e di comunione. E a distanza di 27 anni della sua apertura – e nonostante i tempi di guerra – questa piccola oasi di pace nel cuore di Acco non fa che confermarlo.
Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.
Se e quando arriverò in Israele andrò certamente a pranzo o a cena da Uri. Long live to Israel and good will