Prelibatezze in salamoia, sottosale e sott’aceto. Storia e ricette per verdure in barattolo
C’è sempre una buona ragione per preparare una conserva. Quando ci si aspetta una stagione poco generosa, non c’è come fare tesoro di quella più ricca per goderne poi nei momenti di magra. Quando invece la natura offre a piene mani e per più tempo i propri doni, sarebbe un vero peccato non riuscire a consumarli tutti e non metterli da parte per i giorni futuri.
Quanto esposto è l’approccio al cibo che, soprattutto prima dei moderni sistemi di refrigerazione, accomunava gran parte dei popoli della terra. In particolare, queste considerazioni riguardano chi, come gli ebrei, si è trovato nel corso dei secoli a vivere in paesi dalle condizioni climatiche e ambientali a volte diametralmente opposti tra loro, ma bisognosi di trovare un punto di contatto nella diversità e di continuità nel cambiamento. Dalla Spagna alla Russia, dal Maghreb alla Germania, Sefarditi da una parte e Ashkenaziti dall’altra hanno da sempre condiviso, oltre alla religione, anche la passione, unita e spesso stimolata dall’esigenza, per la conservazione del cibo.
Ogni latitudine ha i propri tesori e quindi le tecniche cambiano, dalle aringhe dei mari del Nord ai limoni sotto sale del Nord Africa, dalle rape e i cavoli dell’Europa Orientale alle confetture della Penisola Iberica. Ma non c’è ricorrenza religiosa che non veda le famiglie riunirsi intorno a un tavolo traboccante di pietanze spesso preparate anche grazie a frutta e verdura della stagione precedente accuratamente trattate. Dovendo limitare il campo di indagine, l’attenzione sarà qui rivolta solo alle conserve salate, in particolare a quelle vegetali. Messe da parte le deliziose coppe di marmellata della tradizione sefardita così come la frutta essiccata tipica delle ricorrenze, ci si concentrerà sui sottaceti e le salamoie che costituiscono una cifra distintiva della tavola della tradizione.
Come ricorda Emily Paster nell’introduzione al suo libro The Joy of Jewish Preserving, non sono solo le innumerevoli occasioni conviviali dell’anno ebraico a sollecitare e quasi a imporre una ricca scorta alimentare, ma sarebbe anche la stessa kasherut ad avere stimolato storicamente lo sviluppo di un’arte conserviera specificamente ebraica. Più in generale, l’esigenza di controllare ogni singolo passaggio e ingrediente dei prodotti lavorati per chi mangia kasher non può che spingere verso l’autoproduzione delle pietanze, fresche e conservate che siano. In quest’ultimo caso, sono soprattutto il controllo degli eventuali parassiti nei vegetali e l’impiego di aceto e sale kasher a richiedere una supervisione particolarmente accurata. Meglio fare da sé, insomma, che affidarsi a mani sconosciute e inesperte delle regole.
A quanto detto va aggiunto che ci sono alcuni metodi di conservazione che si legano più di altri alla tradizione ebraica. Uno di questi è la salamoia, o meglio, il complesso meccanismo della lattofermentazione. Tanto per capirsi, quando si parla di crauti o di cetriolini, di rape, di fagiolini o di pomodori, nel caso dell’arte conserviera alla giudaica si intendono perlopiù alimenti la cui durata nel tempo è garantita dall’impiego del sale o, più propriamente, di una salamoia. L’aspetto finale è quello di un sott’aceto, così come per certi versi il gusto, che ha note acide, anche se di aceto non ci dovrebbe essere neppure una goccia.
Come avvenga tutto ciò è spiegato appunto da una tecnica arrivata dalla Cina presso gli ebrei dell’Europa orientale grazie ai Turchi e ai Tartari già nel XVI secolo d.C.. Questo, almeno, è quanto racconta Gil Marks nella sua Encyclopedia of Jewish Food alla voce “Pickle”. Questo termine porterebbe a qualche equivoco, perché viene tradotto abitualmente come sott’aceto e significa in effetti anche questo, ma nel caso delle conserve ebraiche si applica alla fermentazione. Per estensione, inoltre, si riferisce ai cetriolini, che almeno negli Stati Uniti sono quasi sinonimo di cucina ebraica. Come ci siano arrivati, i cetriolini e le verdure fermentate, negli Stati Uniti dall’Europa dell’Est è facilmente intuibile. La parte forse più interessante della vicenda, almeno per chi vive al di qua dell’Oceano, è capire come e perché la tecnica cinese della fermentazione sotto sale abbia avuto tanto successo presso gli ebrei dell’Est Europa.
Nel capitolo indicato, Marks ricorda come i conservanti più usati nei tempi più antichi fossero il sale e l’aceto, impiegati da soli o in abbinata tra loro. Prima dell’introduzione della lattofermentazione, quindi, già si sapeva sfruttare il sale, unito in cottura o a crudo ai cibi eventualmente con l’aceto per prolungare i tempi di conservazione. Il sale, oltre a cambiare il sapore dei vegetali, scoraggiava anche la formazione di batteri, li manteneva più croccanti e impediva che perdessero liquido annacquando l’aceto.
Altre fonti ricordano che nel Talmud il processo di conservazione viene paragonato alla cottura. Salatura e marinatura sarebbero considerati un modo di cucinare i cibi sia quando si proibisce di conservare insieme carni e latticini, sia quando si discute se sia lecito cospargere di sale il cibo sulla tavola di Shabbat. La diatriba si risolve con la constatazione che il sale spolverizzato sul piatto sarebbe comunque troppo poco per innescare qualunque forma di marinatura e va quindi consentito senza il timore di andare contro la legge che impone il riposo. Al di là della curiosità aneddotica, questo racconto fa capire quanto l’arte di conservare i cibi sotto sale e sott’aceto fosse nota fin dai tempi più lontani. E questo vale, ricorda Marks, dall’antico Egitto al lontano Oriente, dalla Roma imperiale alla Spagna medievale. Le conserve non erano tanto un lusso per questi popoli, quanto una parte fondamentale della dieta, che oltre a fornire nutrimento rendevano anche più appetibili pasti poveri e monotoni, composti perlopiù da pane duro.
A questo proposito l’autore dell’Encyclopedia cita a sua volta il Talmud quando ricorda il passo in cui si dice che chi sta per recitare l’hamotzi, ossia la benedizione sul pane, non è autorizzato a farlo prima che il sale e il leaftan siano messi davanti a lui. Nell’illustrare il significato del termine ebraico leaftan, lo studioso ritiene che sia derivato dalla parola lefet, ossia rapa, che a sua volta deriverebbe da dalahfaht, ossia torcere o girare, che indica il modo di raccogliere tale radice. Come spiega Marks, la rapa in epoca talmudica era così diffusa che il suo nome veniva usato genericamente per indicare tutti i vegetali, così come la sua versione conservata era la più diffusa in tutto il Medio Oriente, tanto da diventare sinonimo di condimento. Un po’ come sarebbe successo in epoca moderna con i cetriolini, insomma.
Per arrivare ai jewish pickle, però, si dovrà passare come si è visto dalla Cina. È qui che oltre 2.400 anni fa sarebbe stata scoperta l’arte di creare un ambiente acido senza aggiungere aceto, ma sfruttando invece i batteri acidificanti naturalmente presenti nelle verdure crude. Questi batteri si nutrono dello zucchero contenuto nei cibi producendo acido lattico e questo non solo conferisce ai prodotti il caratteristico sapore piccantino ma morbido, ma li protegge anche dall’attacco dei batteri nocivi. Fondamentale in tale tecnica, sulla quale si basa tra l’altro anche la produzione dello yogurt, è l’assenza di cottura e di additivi acidi, mentre è essenziale l’esposizione al calore unita all’uso del sale. Questo va regolato ad arte: se è troppo poco, i cibi vanno a male, se è troppo, la fermentazione non si verifica.
A questo punto è doveroso fare una distinzione sulla diversa diffusione della lattofermentazione nei luoghi della diaspora. Leggendo le pagine che la scrittrice di origini egiziane Claudia Roden dedica alle conserve, colpiscono le numerose le ricette di sottaceti o comunque di conserve che usano l’aceto in abbinata al sale. Si tratta perlopiù di preparazioni che giungono dalla tradizione sefardita e che, come spiega la storica, non sono solo una tecnica per far durare più a lungo i vegetali, ma anche un modo per renderli più buoni e sfiziosi, perfetti da gustare come aperitivo o da abbinare ai pasti principali. Nel suo Book of Jewish Food la Roden passa così dal torshi left, la conserva sott’aceto di rape rosa diffusa in tante famiglie del Libano, dell’Egitto e della Siria, ai limoni confit del Nord Africa, dove al sale della conservazione viene aggiunto il succo degli agrumi, passando quindi ai numerosi chutney della comunità ebraica indiana.
Alla ricchezza di vegetali dei paesi Orientali e Mediorientali va associata la relativamente più alta disponibilità a queste latitudini dell’aceto. Una ricchezza, questa, a cui gli ebrei nord europei non potevano ambire, dovendo così basarsi sul solo uso del sale. Ed è probabilmente per questo motivo che l’arrivo delle tecniche cinesi era stata accolta con tanto entusiasmo da slavi ed ebrei dell’Europa dell’Est, dal Baltico alla Romania.
Perlopiù grazie agli ebrei, la lattofermentazione ha viaggiato poi verso ovest, conquistando un po’ tutta l’Europa settentrionale e generando monumenti gastronomici come i crauti insieme a mille altri tipi di conserve, dalle barbabietole alle carote, dai cavolfiori ai fagiolini, fino alle olive, i peperoni, i pomodori verdi, le ormai iconiche rape e, naturalmente, i cetriolini. Emigrati con gli ashkenaziti negli States, i jewish pickle ancora oggi si distinguono dal mare di proposte industriali per il fatto di non contenere aceto e di avere quindi quel sapore distintivo che rende speciale un sandwich o che pulisce la bocca tra una portata di carne e l’altra di un ricco pasto di festa.
Fagiolini all’aglio
Ingredienti
250 g di fagiolini verdi
500 ml di acqua minerale
3 spicchi d’aglio
2 rametti di aneto fresco
1 foglia di alloro
pepe nero in grani
semi di senape
sale
Versare l’acqua in un barattolo da 1 litro sterilizzato a bocca larga. Unirvi 1 cucchiaio di sale più un altro cucchiaino, coprire con un coperchio a chiusura ermetica e agitare bene. Aggiungere quindi ½ cucchiaino di semi di senape e ½ cucchiaino di grani di pepe, l’alloro, l’aneto e l’aglio sbucciato e schiacciato.
Aggiungere i fagiolini puliti, stringendoli il più possibile nel barattolo e assicurandosi che la salamoia li ricopra perfettamente. In caso contrario, mescolare 250 ml d’acqua con 1 cucchiaio e ½ di sale e versare il liquido necessario a ricoprire le verdure. Chiudere il vaso ermeticamente.
Lasciare riposare i fagiolini a temperatura ambiente per 5-7 giorni, aprendo brevemente il barattolo una volta ogni 2 giorni per fare uscire l’anidride carbonica che si sarà creata in modo che il vetro del barattolo non si incrini a causa della pressione. I fagiolini diventeranno più chiari in circa 2 giorni.
Assaggiare i fagiolini ogni giorno dopo il quinto giorno fino a raggiungere il livello di acidità desiderato. A questo punto la salamoia avrà iniziato ad apparire torbida e potrebbe risultare un po’ frizzante. Una volta raggiunto il gusto desiderato, rimuovere l’eventuale parte bianca formata sulla parte superiore del recipiente, richiudere il barattolo e trasferire i fagiolini in frigo. Si conservano fino a 6 mesi.
Limoni sotto sale
Ingredienti
6 limoni dalla scorza spessa non trattati
6 cucchiai di sale grosso marino
il succo di 3 limoni
Pulire con cura i limoni, poi tagliarli in quarti senza però separare i pezzi completamente e distribuirvi il sale in modo da ricoprirli perfettamente. Disporli in un barattolo di vetro sterilizzato che li contenga in misura, premendoli con cura in modo che siano schiacciati l’uno con l’altro, poi chiudere il vaso con il coperchio.
Lasciare riposare i limoni per 3-4 giorni, in modo che il liquido fuoriesca e la scorza si ammorbidisca, poi premerli il più possibile e aggiungere il succo fresco in modo da coprirli completamente. Chiudere nuovamente e lasciare riposare al fresco per almeno 1 mese.