Storia della piccola comunità ragusana della costa dalmata
Non tutto il male viene per nuocere. Così persino il mare di turisti che periodicamente invade le antiche vie di Dubrovnik porta qualche vantaggio non essenzialmente commerciale. Sarebbe ad esempio solo grazie ai viaggiatori ebrei di passaggio se la microscopica sinagoga della capitale croata è ancora attiva. Si dice infatti che la manciata di membri della comunità locale da sola non sarebbe sempre sufficiente a formare un minian. Di sicuro, la piccola congregazione dell’antica Ragusa non ha un proprio rabbino e per le funzioni deve contare sulla disponibilità di un religioso proveniente da un’altra sede. In ogni caso, il tempio può fregiarsi del titolo di seconda più antica sinagoga in Europa dopo quella di Praga e addirittura di più antica al mondo tra quelle sefardite.
Studiare la sua storia significa ripercorrere anche quella degli ebrei ragusani. Che sarebbero presenti in città da almeno sette secoli. Tra i documenti più antichi ne troviamo uno datato 1326 relativo a un medico ebreo chiamato in città dal governo locale e altri di metà Trecento che parlano di suoi colleghi impiegati nell’antica Ragusa. La costruzione del tempio risalirebbe al 1352, quando la città era già sede di diversi commercianti ebrei attivi nel Mediterraneo, per quanto l’ufficializzazione legale sarebbe arrivata solo mezzo secolo più tardi, nel 1408. Gli ebrei scacciati dalla Spagna nel 1492 trovarono dunque diversi correligionari ad accoglierli in città e pare che molti sefarditi poterono raggiungere la costa dalmata anche grazie alle navi ragusane, storicamente impegnate nei commerci con la Penisola Iberica. Sempre il commercio fu una della prime occupazioni degli ebrei di Dubrovnik, attivi soprattutto nella vendita delle spezie e dei tessuti nonché nella loro lavorazione.
Gli arrivi da Spagna e Portogallo sarebbero proseguiti per decenni, testimoniati da documenti come lo scritto di Balthasar de Faria al re Giovanni, dove nel 1544 si parlava di una nave carica esclusivamente di profughi portoghesi. Due anni dopo, i funzionari locali pensarono bene di riservare uno spazio della città alla sempre più numerosa comunità. Si sviluppava intorno allo stretto e ripido vicolo Lojarska, oggi noto come Ulica Zudioska (letteralmente la strada ebraica), dove già si trovava la sinagoga. Appena fuori dalla strada principale dell’antico centro storico, l’attuale Stradun, costituiva il nucleo originario del ghetto: quattro case e sei magazzini che tra alti e bassi avrebbero accolto o rinchiuso gli ebrei da lì ai tre secoli successivi. Le sorti della comunità di Dubrovinik avrebbero seguito quelle della città.
Per quanto ancora Repubblica Marinara indipendente, fin dal Cinquecento Dubrovnik aveva iniziato a perdere la propria autonomia politica e commerciale. Prima la scoperta dell’America e l’apertura di nuove rotte mercantili, poi l’espansione Ottomana e quindi i due terremoti che l’avevano colpita nel 1520 e nel 1667 ne avevano minato la forza. E con questa il potere tra le forze europee. L’atteggiamento nei confronti degli ebrei era stato inizialmente tollerante, anche considerati i rapporti che questi intrattenevano con gli Ottomani, ma aveva poi seguito le minori fortune della città, sempre più spaventata dalla concorrenza mercantile e soggetta alla volontà di Venezia e della Chiesa.
Dopo secoli di espulsioni subite periodicamente a partire dal 1515, a metà del Settecento agli ebrei era stato tra le altre cose proibito di dedicarsi al commercio e la loro vita, che fino a quel momento poteva svolgersi anche al di fuori dei confini del ghetto (ormai passato a 18 case), vi era stata relegata senza deroghe. I cancelli sarebbero stati aperti solo dai soldati francesi, quando Napoleone nel 1808 aveva messo fine all’indipendenza secolare della città concedendo in compenso l’uguaglianza legale agli ebrei. Ma la libertà sarebbe durata poco. L’annessione della Dalmazia all’Impero Austriaco avrebbe nuovamente limitato i loro diritti, recuperati solo nella seconda metà dell’Ottocento.
In città si può visitare un luogo in qualche modo simbolico della segregazione subita dalla comunità ragusana. Oggi si trova fuori dalle mura, appena oltre l’ingresso di Porta di Pile, ma un tempo si trovava nella Città Vecchia e non a caso è conosciuta tuttora come la Fontana degli Ebrei. Fino all’arrivo delle truppe napoleoniche e al suo trasferimento, l’acqua che usciva dalla bocca del suo leone in pietra era l’unica dalla quale i membri della comunità potevano abbeverarsi. Le altre due fontane storiche, in primis quella famosissima di Onofrio, erano per legge a loro precluse.
Tornando nel cuore della città, non è difficile individuare quella piccola meraviglia che ha accompagnato le vicissitudini della comunità ragusana. Per raggiungere la sinagoga basta seguire il flusso dei turisti impegnati lungo lo Stradun in uno degli innumerevoli tour che comprendono immancabilmente pure questo monumento. Anche quando non ospita le funzioni religiose, il tempio è punto di riferimento per gli amanti della storia e dell’arte. Al primo piano del palazzo trecentesco in pietra al numero 5 di Ullica Zulioska ha sede infatti anche un piccolo ma prezioso museo ebraico. Tra i reperti più importanti qui conservati ed esposti si trovano rotoli della Torah medievali provenienti da Italia, Spagna e Francia, coperture della Torah realizzate in seta e decorate con ricami dorati del XVII secolo, oggetti religiosi in argento del XVII secolo e uno splendido tappeto moresco del XIII secolo. Tra i documenti si può trovare l’elenco delle vittime del terremoto del 1667 o delle persecuzioni accanto al permesso rilasciato nel 1557 al medico portoghese Amatus Lusitanus di esercitare in città e al decreto del maresciallo francese Marmont che concede la piena emancipazione agli ebrei di Dubrovnik nel 1808.
Per accedere al santuario principale si deve salire la rampa di scale che conduce al piano superiore. Restaurato numerose volte, dopo i già citati terremoti ma anche dopo le più recenti devastazioni subite nel 1991 e il ’92, durante la guerra di indipendenza croata, il tempio è un piccolo grande gioiello assolutamente da visitare. Dominato da maestosi lampadari fiorentini del XIX secolo, pesanti tendaggi e un soffitto azzurro cielo, presenta una piccola sala di preghiera divisa a metà da un muro a tre arcate. La Bimah recintata in legno è fronteggiata dall’Arca con la sua splendida struttura architettonica decorata con xilografie e montata su colonne corinzie. In stile barocco, le decorazioni risalgono a un periodo compreso tra il 1652 e il 1670, successivo quindi al terremoto del 1667 che aveva gravemente danneggiato i locali. Il tramezzo del matroneo, con le sue finestrelle a grate da cui le donne potevano seguire le funzioni, è stato aggiunto nel XVIII secolo. Le piccole dimensioni della sala non devono sorprendere. Per quanto economicamente e culturalmente rilevante, anche nelle epoche più felici la comunità di Dubrovnik non ha mai superato di molto le duecento anime, con un picco di 260 unità registrate nel XIX secolo.
Risale a un altro dei periodi di maggior fortuna della comunità la costruzione dell’antico cimitero. Correva il 1652 quando gli ebrei acquistarono un terreno fuori dalla città vecchia, nel quartiere di Ploce, per seppellirvi i propri morti. Chi cerca oggi l’antico sito vi troverà però solo un parcheggio dato che alla fine dell’Ottocento la comunità aveva venduto il terreno trasferendo nel 1911 le tombe nel cimitero di Boninovo, fuori città. Solo una trentina delle vecchie lapidi sono ancora visibili tra le circa 200 complessive. Molte antiche pietre sono state infatti trafugate per la costruzione di edifici civili e fortificazioni. Tra quelle recuperate se ne vedono di orizzontali in tradizionale stile sefardita con intagli ornamentali e iscrizione ebraica, così come altre in cui è evidente l’influenza turca, con la raffigurazione di sole, luna o stelle. Altre ancora presentano decorazioni pseudo-araldiche come stemmi, corone e gigli e sono di evidente influenza italiana. Non mancano infine lapidi verticali in stile ashkenazita e altre a forma di obelisco del periodo austro-ungarico. Stilisticamente assimilabili a quelle cristiane, queste ultime mantengono solo nell’iscrizione il loro aspetto distintamente ebraico.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.