Joi in
Tutte le #WomenOfJOI! Capitolo 1

Tutte le donne della nostra rubrica #WomenofJOI. Ancora una volta, lasciamoci ispirare dalle loro storie!

EVA

Colei dalla quale tutto comincia: in ebraico חַוָּה (Hava), un nome legato alla radice חיה (haya, vivere), ma anche a חוה (hava, respirare). Eva è colei che vive, e colei che dà la vita.

La prima donna, la prima amante, la prima madre: tra le donne della tradizione, una delle più bistrattate. Perché sbaglia, fatica ad ammetterlo, si nasconde, subisce le conseguenze del suo errore; a partire da quel momento, a lei e a al misterioso frutto che colse (una mela? Chissà, non possiamo saperlo!) si attribuiscono tutti i mali. Forse diamo a Eva qualche responsabilità di troppo. Che cosa avremmo fatto al suo posto? Eva ci ricorda quanto i limiti che ci vengono posti siano difficili da rispettare ma anche come, al tempo stesso, di tali limiti spesso abbiamo bisogno.

 

 

RUTH BADER GINSBURG

O dovremmo dire semplicemente RBG? È così popolare che scrivere il suo nome intero appare quasi superfluo. “La famigerata RBG”, (Notorious RBG), così un blog di Tumblr, ispirazione di un successivo libro biografico, ha consacrato Ruth Bader Ginsburg a icona pop. Classe 1933, nata a Brooklyn da genitori ebrei russi, nel 1956 è tra le sole nove donne a essere ammesse alla Facoltà di Legge di Harvard. Nel 1993, è la seconda donna nella storia, e la prima ebrea, a essere nominata Giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, dove tuttora serve. Instancabile e inflessibile combattente per l’uguaglianza di genere, i diritti civili, le libertà personali, in tutta la sua carriera Ruth non ha mai dimenticato la fatica degli esordi, lo scontro con un mondo meschino che credeva di poterla screditare, sottopagare, discriminare in quanto donna, madre, ebrea. Un mondo che Ruth ha cambiato dall’interno, senza dar segno d’aver finito: è recente, ad esempio, il suo appoggio alla campagna contro le molestie #MeToo. Così tra una RBG T-shirt e una RBG manicure (sì, c’è anche quella!), vale la pena ripercorrere la sua storia e pensare: “Il mondo è più giusto grazie a te, Ruth, eppure ancora non possiamo permetterci di non aver più bisogno di te”.

 

 

ESTER

Può l’intervento di una persona sola ribaltare le imminenti sorti di molti? Ester, regina di Persia quasi per caso, mentre dopo un digiuno di tre giorni tenta il tutto per tutto presentandosi senza permesso al cospetto del suo sposo, ci dice di sì. Facile, commentano sottovoce quelli che, invece di mettersi in gioco, occupano le loro energie a disturbare chi ci prova. Facile quando (lo riporta un Midrash), gli angeli ti aiutano a star dritta, sfolgorare di bellezza, forzare il re a guardarti e a stendere lo scettro verso di te in segno di non ostilità. Resta il fatto che Ester, non un’altra, ci ha provato: la meghillah che porta il suo nome non trascura di dirci che aveva paura, perché non poteva sapere se sarebbe riuscita. Non sempre è vero che la storia si ripete, che tutto è perduto e che non resta che trarre vantaggio alla bell’e meglio da un destino già scritto: Ester, in ebraico “Io mi nasconderò”, ma solo fino al momento di lottare e di non lasciare nulla di intentato.

 

 

VASHTI

Chi ha una predilezione per le attrici non protagoniste, per i personaggi secondari che nei pochi minuti loro concessi sulla scena sembrano dire forte “Guardami! Ho qualcosa da insegnarti!”, non può non provare per Vashti una certa simpatia. “Il mio regno per…” si dice spesso scherzando. Vashti, che in antico persiano pare significhi “La migliore, la più bella”, rinuncia davvero al suo. Per un no. Sulle circostanze di quel no ci sono ipotesi e nessuna certezza. Il re le chiese davvero di mostrarsi nuda? Fu messa a morte, oltre che ripudiata? I fatti perdono di chiarezza per il nostro essere spettatori un po’ morbosi, sempre alla ricerca di dramma e di sensazionalismo. Certamente re Assuero non brilla per indipendenza di personalità e Vashti scuote i suoi fissi schemi di uomo, prima ancora che quelli di sovrano. Alcune interpretazioni esaltano la figura di Vashti a scapito di quella di Ester, vista come passiva e sostanzialmente opportunista. Ma la verità è che impariamo da Vashti come impariamo da Ester. Di fronte a qualcosa che non condividiamo c’è un tempo per parlare, ma anche un tempo per dire no. Di fronte a ogni nuova situazione, è fondamentale l’abilità di capire quale sia la mossa più indicata.

 

 

BETTY FRIEDAN

“È più facile vivere attraverso qualcun altro piuttosto che diventare veramente se stessi”.

Teorica della seconda ondata del femminismo e fondatrice del NOW (National Organization for Women), il suo saggio “La mistica della femminilità” ha svelato l’insoddisfazione delle donne americane, relegate dentro un modello sociale asfittico. È stato scritto che Betty Friedan ha dato il via “alla più grande rivoluzione sociale degli ultimi secoli, senza lo spargimento di una sola goccia di sangue”. Betty fu sempre molto attiva anche nella ricerca di un punto d’incontro tra femminismo ed ebraismo. Queste le sue parole durante la marcia per il cinquantenario dalla concessione del voto alle donne,nel 1970: “Di generazione in generazione, i miei antenati hanno recitato: Ti ringrazio, mio Signore, per non avermi creato donna. Da questo giorno in poi voglio che tutte le donne possano dire: Ti ringrazio, mio Signore, per avermi creato donna”.

 

 

ZIPPORAH

Il suo nome significa “uccello”, ma siete fuori strada se ciò vi evoca un’immagine di volubilità: Zipporah (o Sefora, Tzipora), figlia del capo tribù di Madian (Ietro, patriarca dei Drusi) e moglie di Mosè, è una macchina da guerra! La bizzarria del passaggio biblico che la vede protagonista ha scatenato la creatività dei commentatori. Che su un punto concordano: Zipporah, donna e pagana, salva Mosè dall’ira divina, compiendo quello che ha tutte le caratteristiche di un rituale sacerdotale. Salva così, per estensione, tutto il popolo ebraico, permettendone la liberazione dall’Egitto. I suoi debitori non si sprecano in gratitudine: i cognati Aronne e Miriam la trattano con disprezzo e a un certo punto (ma anche qui, il testo non è chiaro) è allontanata dallo stesso Mosè. Zipporah è l’Altro col quale non sempre sappiamo come misurarci. La pittura occidentale, da Botticelli in poi, ne ha veicolato un’immagine falsata: Zipporah era di pelle nera, o forse bruna, di certo non bionda con gli occhi azzurri. La cultura afro l’ha riscoperta (vedi questa rappresentazione dell’artista Diane Britton Dunham ) e dovremmo farlo anche noi: non pensate meriti ben di più di prestare il nome alla nota catena di profumerie?

 

 

HEDY LAMARR

Diva e scienziata, attrice e inventrice. Brevettare la tecnologia che sarà alla base della comunicazione wireless, recitare la prima scena di nudo della storia del cinema (il film “Exstase“), progettare dei modelli per rendere gli aerei più veloci, ispirare la figura della Biancaneve disneyana. Sì, tutto ciò riguarda una sola persona! Nata a Vienna da famiglia ebraica dell’alta borghesia, la vita di Hedy (vero nome Hedwig Kiesler) è un’avventura più interessante di qualsiasi film. Si sposa giovanissima con un commerciante d’armi che ha stretti legami coi gerarchi fascisti e nazisti, geloso al punto che tenterà di far sparire “Exstase” acquistandone quante più copie possibili; e ci resta insieme quel tanto che basta per acquisire, mine de rien, un’infarinatura su come funziona la tecnologia militare. Poi fugge prima a Parigi e poi negli Stati Uniti (in una versione della storia si legge, sparendo dopo una cena di gala in cui aveva indossato tutti i suoi gioielli), debutta a Hollywood e nel tempo libero, preoccupata dell’avanzata nazista, si diletta di aerodinamica, sottomarini, onde radio. Nel 1942, insieme al pianista George Antheil, deposita il brevetto 2.292.387: la tecnologia a rapida variazione di frequenza sulla quale si fonda il nostro wifi. Ignorata dall’esercito americano (chi, in tempo di guerra, prenderebbe sul serio l’invenzione di un’attrice?), godrà di un riconoscimento tardivo e incerto. Gli ultimi anni della vita di Hedy sono difficili e amari. Come possiamo rimediare ora? Forse, smettendo di mentire a noi stessi e agli altri: non è vero che non possiamo essere tutto ciò che vogliamo. Non dimentichiamolo, come non dimentichiamo che è per merito di Hedy che ora, poco importa dove ci troviamo, possiamo leggere queste righe e condividerle sul nostro social preferito.

 

 

MIRIAM

Etimologia incerta, ma è quasi inevitabile optare per la tesi che vede un legame con l’acqua. Il Nilo, lungo le cui sponde Miriam segue la cesta; il Mar Rosso che le ispira il “Canto del Mare”; il leggendario “Pozzo di Miriam”, che disseta nel deserto. L’acqua della vita: Miriam bambina è levatrice e si ribella (“meri” significa ribellione) agli ordini del Faraone; già profetessa, convince i genitori a non separarsi, poiché la nascita di un liberatore è vicina. Miriam è la sorella maggiore, più saggia dei fratelli Mosè e Aronne: è possibile dunque che sia tanto meschina con la cognata, e addirittura per il colore della pelle? Nessuno dei personaggi biblici è privo di ombre. L’interpretazione dei versetti incriminati in più è discussa: qualcuno sostiene che a Mosè si rimproveri non il matrimonio con Zipporah, ma la loro successiva separazione. Qualsiasi cosa Miriam abbia voluto dire, diamole il merito di averci messo la faccia: Aronne la manda avanti, Miriam parla per entrambi, e la lebbra per punizione divina se la prende lei. E dei tanti motivi per ricordare Miriam, comunque ne basta uno: quando prende il tamburello e intona il Canto del Mare (nell’immagine, l’interpretazione di un murales a Gerusalemme), è la prima donna della Bibbia che, attraverso il canto e la danza, celebra la gioia attraverso il proprio corpo. Facendo i conti, non è più una donna giovane. La danza di Miriam nel deserto butta dunque all’aria tutte le false idee su ciò che è bello e opportuno; lascia indietro il superfluo (il chametz, potremmo dire?) per tenersi ben stretto l’essenziale: la gioia della libertà.

 

 

ALECIA BETH MOORE 

E chi sarà mai, direte voi. Beh, le sue canzoni sono nella playlist che facciamo partire quando abbiamo bisogno di la carica, solo che le abbiamo salvate sotto… P!NK! Nata da padre cattolico di origine irlandese e madre ebrea di origine lituana, Pink ha dichiarato più volte di identificarsi molto con il suo background ebraico. Un anno fa è diventato virale il suo post su Instagram “Hate will not win”, una riflessione dopo la marcia dei suprematisti bianchi a Charlottesville, che la cantante ha scritto “As a Jewish woman”. Perché, si sono chiesti alcuni, sentire il bisogno in un’occasione simile di esprimersi, di identificarsi con la parte di sé che è particolare, che distingue, invece di metterla da parte a favore dell’universale? Forse perché è proprio quando il particolare viene rifiutato, quando si viene attaccati non per ciò che si fa, ma per ciò che si è, che l’universale viene negato, messo in dubbio, concesso a metà. I tanti tasselli che fanno ciò che noi siamo sono unici e vanno affermati, celebrati. Perché, come canta Pink “We are searchlights, we can see in the dark/ We are rockets, pointed up at the stars/ We are billions of beautiful hearts!”.

 

 

RITA ROSANI

“Molte donne hanno agito valorosamente, ma tu le hai superate tutte”: è il versetto di Proverbi, 31, 29-30, inciso sulla lapide che ricorda Rita Rosani nella sinagoga di Verona. Partigiana, medaglia d’oro al valor militare, Rita nasce a Trieste da genitori cecoslovacchi (vero cognome Rosenzweig) e lavora come maestra nella scuola ebraica della città. Dopo l’8 settembre si unisce alla Resistenza e a Verona forma la banda “L’Aquila”. “Non era una donna, era un bandito”, si intitola la biografia di Rita scritta da Livio Isaak Sirovich. Perché Rita non arretra di fronte a nulla. Durante un assedio alla base dell’Aquila sul monte Comun, rifiuta la possibilità di fuggire che le offrono i compagni: combatte in prima fila, viene catturata e uccisa. Dai racconti su Rita emerge subito il suo coraggio, il suo non risparmiarsi quasi incosciente. Leggendo di più, colpiscono le lettere che, prima della Resistenza, Rita scrive al fidanzato da una Trieste inquinata dalle leggi razziali: come si passa da quel senso di impotenza, di incredulità che ne traspare, alla ferma volontà di voler combattere? Non è un passaggio facile, ma era necessario allora come adesso: liberarsi dalla convinzione che tutto sia scontato, o già deciso da qualcuno al nostro posto, tenere cara ogni singola conquista di libertà, lottare per non perderla e perché non perda di significato.

 

 

RABBI MIRIAM FARBER WAJNBERG

Comunità e buone pratiche, dialogo aperto sui valori, educazione all’inclusione: se c’è qualcosa che ci piace moltissimo è curiosare qua e là per il mondo per imparare dai progetti più creativi e originali! Miriam Farber Wajnberg, ordinata rabbina alla Hebrew Union College-Jewish Institute of Religion di Los Angeles e già attiva come educatrice e community organizer, è attualmente responsabile del programma di Adult Jewish Learning e Interfaith Engagement promosso dal Jewish Community Center (JCC) di Manhattan. Il suo progetto si chiama Circles of Welcome e si rivolge alle cosiddette famiglie miste, nelle quali l’identità ebraica convive con altri background religiosi e culturali, e offre un percorso di confronto, integrazione e costruzione di comunità, che nella Grande Mela non è sempre facile da conquistare con le sole proprie forze. Alla base vi è un’idea di inclusione e confronto creativo sull’esperienza ebraica, che offre l’opportunità di gettare nella grande città le basi per una rete di relazioni non casuali né superficiali, ma ricche e significative, quelle di cui tutti abbiamo bisogno.

 

 

LA REGINA DI SABA

Realmente esistita? Finora negli ambienti della ricerca storica e archeologica non si sono messi d’accordo. Una figura speciale? Questo senza dubbio, per la sua capacità di affascinare e nutrire l’immaginazione di così tante culture: la sua storia è raccontata nella Bibbia e ripresa dalla letteratura rabbinica; ma di lei parlano anche i Vangeli, lo storico Giuseppe Flavio, la letteratura agiografica medievale, il Corano, gli esegeti musulmani del periodo andaluso. Soprattutto, è al centro del Kebra Negast, il testo sacro fondamentale della cultura etiope.

Le diverse fonti concordano nel descriverla come una vera regina: bella, ricca, potente, intelligente. Riguardo all’incontro con re Salomone, durante il quale la sfida intellettuale corre di pari passo con l’attrazione tra i due, non c’è accordo invece su chi abbia preso l’iniziativa.

Forse la versione più interessante, dettagliata e ironica di questo passaggio ci è offerta dal Targum Sheni, che inizia con un banchetto dove re Salomone alza un po’ troppo il gomito e se la prende con una povera upupa, colpevole di non essersi presentata tempestivamente al suo cospetto; continua con lo sventurato volatile che, vedendosela brutta, imbastisce tutta una storia di viaggio fino al regno di Saba dove c’è una regina che il re farebbe bene a conoscere. Prosegue con l’invito recapitato e la regina che fa subito capire di che pasta è fatta: “Un viaggio simile si fa in sette anni, ma io ce ne metto tre”. Promessa mantenuta, eccola arrivare con la sua carovana e cadere in un tranello ottico (sembra, escogitato da re Salomone per fare luce su certe dicerie riguardo una presunta natura demoniaca della donna): scambiare una superficie di cristallo per acqua e sollevare quindi la veste. La nostra Regina si rivela capofila della filosofia nature: bella come il sole del suo regno, ma con le gambe pelose. Re Salomone non si dà pace (eddai, per due peli!) e alla fine della sessione enigmi la manda a fare tutto un trattamento beauty compreso di ceretta da lui stesso ideata (se uno è sapiente deve esserlo a 360 gradi!) che contiene arsenico (ahia!). La Regina non si fa pregare e noi la capiamo bene: perché se mi fai lasciare regno e palazzo, viaggiare per tre anni nel deserto, con tutto il mio seguito, e il caldo e la sabbia e gli insetti e i cammelli, e tutto per degli enigmi, il minimo che puoi fare al mio arrivo è offrirmi un bel servizio Spa.

 

 

RUT

Si legge nel Talmud che “Gli atti di gentilezza pesano quanto tutti i comandamenti”. Gentilezza, coraggio e lealtà descrivono Rut, la giovane straniera che abbraccia la fede e il destino del popolo ebraico, tanto da porsi in testa alla stirpe dalla quale nascerà re Davide. Sono qualità che non hanno origine da calcoli di opportunità o costrizione: Rut non è obbligata, né tantomeno incoraggiata, a tagliare i ponti con le sue radici, la sua gente, i luoghi che le sono familiari. Solo la storia di Abramo presenta un parallelo di scelta di vita così radicale, ma con la differenza che Abramo aveva ricevuto la chiamata divina: il che, come dire, aiuta quando devi lasciare ciò che conosci e andare verso l’ignoto. Rut invece fa tutto da sola: del resto, la meghillah che porta il suo nome fa parte di quei testi biblici dove la presenza divina non è esplicitata. Rut, sola, sceglie di seguire Noemi, di stare vicino a una donna, in un’epoca difficile in cui le possibilità di sopravvivenza dipendono moltissimo dall’avere accanto un uomo; in una società dove le donne non sono ma “appartengono”; in un’epoca incerta per Israele, distante dalle epiche guerre di conquista così come dalla gloria a venire degli anni migliori del regno. L’indipendenza di giudizio e azione ripaga Rut con una nuova famiglia e un nuovo popolo al quale appartenere; con un nuovo compagno di vita, scelto per volontà e non per obbligo di legge. Rut ci ricorda che l’outsider, la persona appena arrivata, straniera, strana, dalle scelte incomprensibili, spesso porta un cambiamento positivo.

 

 

ANNIE LONDONDERRY

La mattina del 27 giugno 1894, a Boston, una giovane donna monta in bici e inizia a pedalare verso Chicago. Figlia di immigrati lituani, si chiama Annie Cohen Kopchovsky, ma prende il “nome d’arte” dalla Londonderry Lithia (una marca di acqua minerale) che sponsorizza la sua impresa. Suo marito è un ortodosso, dedito allo studio della Torah, e insieme hanno tre figli di cinque, tre e due anni. Annie, di corporatura esile, senza alcuna esperienza di ciclismo né di viaggi in generale, ha risposto alla scommessa di due ricchi uomini della città: nessuna donna può ripetere l’impresa di Thomas Stevens, il ciclista che dieci anni prima ha fatto il giro del mondo sulle due ruote. Annie ha 15 mesi per dimostrare il contrario, con in aggiunta la condizione di tornare con 5000 dollari “guadagnati in modo onorevole”. Con sé non ha che un ricambio e una revolver dal manico di madreperla. La prima parte del viaggio è la più difficile: con una bici troppo pesante e il gonnellone che la impaccia, Annie ci mette tre mesi per arrivare a Chicago. Fortunatamente, ottiene di ripartire con un mezzo più leggero e un paio di pantaloni a sbuffo. Si imbarca per la Francia, poi per l’Asia e il Medio Oriente. Negli undici mesi che le restano tocca Parigi, Marsiglia, Alessandria d’Egitto, Gerusalemme, Aden, Singapore, Hong Kong. La sua impresa, definita dalla stampa dell’epoca, “la più grande per una donna” è ineguagliabile per il suo distacco dalle altre esperienze di viaggio femminile dell’epoca, certamente coraggiose, ma maturate perlopiù in condizioni di privilegio economico e sociale. Un monito se volete scommettere con una donna su qualcosa che inizia con “È impossibile che…”. Fate attenzione, c’è il caso che più di cent’anni dopo venga ancora ricordata per avere provato che eravate in torto.

 

 

NADIA GALLICO SPANO

Giorno e mese di nascita: 2 giugno. Difficile che non salti all’occhio, anche a chi crede che le date siano solo coincidenze. Nadia Gallico cresce a Tunisi, in una famiglia di ebrei italiani che fa parte della comunità dei “Grana”, sefarditi il cui viaggio è iniziato alcuni secoli prima con l’espulsione dalla penisola iberica, ha fatto tappa a Livorno e poi è ripartito per i porti del Mediterraneo cosmopolita e ricco di opportunità. La madre di Nadia è tra le primissime donne laureate in Nord Africa, il padre e i fratelli sono militanti antifascisti. Sono anni non facili per la comunità italiana di Tunisia e, in particolare per la sua componente ebraica: si tratta di resistere ai continui tentativi di indebolimento da parte della Francia e allo stesso tempo alla fascistizzazione; si tratta di non perdere l’orgoglio di essere italiani e allo stesso tempo di non diventare fascisti. L’impegno di Nadia, attiva nel Partito Comunista, riguarda soprattutto la lotta all’esclusione delle donne dalla politica: organizza per loro incontri e lezioni, talvolta guardati con condiscendenza dai suoi stessi compagni. Con lo scoppio della guerra e il Governo Vichy, del quale anche i protettorati fanno le spese, Casa Gallico si afferma definitivamente come centro antifascista, teatro di frequenti incursioni della polizia. Nel 1939, Nadia sposa l’esule Velio Spano, condannato a morte in contumacia. Insieme torneranno in Italia nel 1944, dopo le quattro giornate di Napoli, per partecipare alla ricostruzione del Paese. L’elezione di Nadia nell’Assemblea Costituente è lo spartiacque tra diaspora e patria, tra i tempi della militanza clandestina e quelli dell’impegno alla luce del sole. Nadia si stabilisce in Sardegna per questa seconda parte della sua vita: metterà sempre al primo posto l’attenzione alle donne e ai luoghi del sud, l’attenzione verso ciò che è ha valore ma è trascurato ed escluso. La sua è una delle tante storie, interessanti, avventurose e diverse, che si possono raccontare a chi chiede: Com’è nata la Repubblica?

 

 

ZELDA

“Tutto quello che la maestra Zelda diceva era interessante e anche un poco inatteso”. Così appariva la poetessa a un suo alunno di seconda elementare, Amos Klausner, che molti anni dopo cambierà cognome in Oz e si affermerà come uno dei più grandi scrittori israeliani. Nata nel 1914 e giunta in Palestina all’età di 12 anni, cresciuta in una famiglia Lubavitch, Zelda Schneurson Mishkovsky comincia a scrivere e pubblicare negli anni dell’università. La sua poesia, come la sua personalità, è unica. Un ebraico ricco di colori, visioni, allusioni, riferimenti mistici e religiosi, che si direbbe accessibile a pochi: eppure, piace a tutti. Una vita non esposta, tranquilla, che si direbbe riservata solo agli intimi: eppure, la casa di Zelda è sempre piena di gente. In un mondo in cui apparenza e pregiudizio ostacolano l’interesse verso l’altro, Zelda non ha bisogno di indossare maschere, di atteggiarsi, di appiattire la sua unicità. “Ogni persona ha un nome”, recita la sua poesia più famosa, divenuta un simbolo della cerimonia commemorativa per le vittime della Shoah. La scrittrice Lea Aini, intervenendo in occasione del ventesimo anniversario della sua morte (avvenuta nel 1984), si chiede se la poesia di Zelda, così intima e lontana dalla cosa pubblica, non nasconda in realtà una proposta politica, un riappropriamento del concetto di “visione”, parola ormai così usurata e banalizzata dai discorsi dei tanti leader di turno. Il mistero e il fascino di Zelda rimangono e il dubbio di tanti lettori non trova risposta: è lei che scrive complicato o sono io che non capisco? Posso vedere anch’io quello che vede lei, e come? Lo spunto per una possibile spiegazione è offerto dalla testimonianza della poetessa e scrittrice Marcia Falk. Rievocando uno dei suoi incontri con Zelda, che iniziò a tradurre verso l’inglese per puro caso, spinta dalla necessità di sbarcare il lunario, dice: “Poi rimase in silenzio, e io attesi per un tempo che mi parve di lunghi minuti, fino a che non mi rivolse di nuovo la parola. ‘Perché’, chiese, guardandomi con espressione di sincero sconcerto, ‘la gente cerca sempre ciò che è complicato? Io intendo sempre ciò che è semplice. Se scrivo pesce rosso, intendo un pesce rosso’ “.

 

 

SHIFRA E PUÀ, LE LEVATRICI D’EGITTO

Shifra, la bella. Puà, la splendida. Le costruzioni grammaticali dell’ebraico biblico giocano sull’ambiguità. Le levatrici ebree o le levatrici delle ebree? Secondo alcuni commentatori (tra cui Rashi, che individua in loro nientemeno che Iochebed e Miriam) sono ebree. Secondo altri, sono egiziane. La logica sembrerebbe avvalorare la seconda ipotesi. Infatti, perché mai il Faraone dovrebbe affidare quel compito a due donne ebree? “Quel compito” rientra nel quadro di un vero e proprio progetto genocidario contro la comunità ebraica che risiede in Egitto dai tempi di Giuseppe. Alle levatrici Shifra e Puà viene ordinato di uccidere i neonati delle partorienti ebree che assistono, qualora questi fossero maschi. Sono donne (quindi, sottomesse) e sono egiziane (quindi, ubbidienti al Faraone, al quale si attribuisce natura divina): che cosa mai potrebbe andare storto? Semplice, che Shifra e Puà non obbediscono. Richiamate, raccontano al Faraone che le donne ebree partoriscono troppo velocemente, loro non arrivano mai in tempo. Cerchi di capire Maestà, Astro del mattino e della sera, noi si fa il possibile, è andata così. È stato detto Shifra e Puà impersonificano il primo atto di disobbedienza civile della storia. Un parallelo è stato individuato nel mito di Antigone, la figlia di Edipo che paga con la vita la sua trasgressione alla legge di Tebe, che le proibiva di dare sepoltura al fratello Polinice. Una lezione su legge, coscienza e responsabilità che continuando con Yochebed, Miriam e Bithia parla tutta al femminile, e mostra anche per noi oggi la direzione della libertà.

 

 

IVA BITTOVÁ

Divna slecinka”: una strana, giovane donna. Usa il violino, la voce e il corpo come si dovrebbe vivere la vita: non trascurandone neanche una possibilità. “Una di quelle rare artiste che sa come mettere tutti i possibili estremi della scala delle emozioni in un’unica canzone”, scrivono di lei sul sito della casa discografica Cantaloupe Music. Nasce in Moravia da genitori entrambi musicisti, padre ungherese di origini rom e madre ebrea. Dagli anni 80 (ma soprattutto dal 1991, anno di uscita del primo album da solista), è tra le musiciste d’avanguardia di maggiore talento sulla scena mondiale. E tutta la sua eredità culturale è viva e vibrante nelle sue perfomance. Sentiamo tanto parlare di divisione, di separazione, noi e loro, questi e quelli…eppure, che dire, come spieghi che dalle contaminazioni possa nascere tanta bellezza?

 

 

PRAMILA

Un Paese neo-indipendente ha bisogno di moltissime cose. Tra le quali, intrattenimento e leggerezza. Il 1947 è l’anno in cui l’India ottiene l’indipendenza e, contestualmente, organizza il suo primo concorso nazionale di bellezza. A essere incoronata prima Miss India della storia è una donna di 31 anni, incinta del quinto figlio, nata a Calcutta da una famiglia ebraica originaria di Baghdad: si chiama Esther Victoria Abraham, in arte Pramila. Ne ha fatta di strada, da quando a 17 anni si è unita a una compagnia itinerante parsi per il suo primo lavoro: ballare per non far annoiare il pubblico nei 15 minuti che ci vogliono per cambiare la bobina tra uno spettacolo e l’altro. Ne farà ancora molta, diventando la prima donna a occuparsi in India di produzione cinematografica (16 film in tutto) e recitando in almeno 30 film dell’età d’oro di Bollywood. Ah, e viaggiando così spesso per promuovere i suoi film da farsi arrestare una volta con l’accusa di spionaggio verso il Pakistan. Si dice delle donne (di tutte ma soprattutto di quelle che si collocano nella categoria “Oriente”) che una volta fatti il matrimonio e i figli, basta, la vita è finita e a trent’anni sei vecchia. Pramila a 31 aveva appena cominciato. E noi, quando cominciamo a prenderci la vita che vogliamo?

 

 

MARIANNE WILLIAMSON 

“La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati. La nostra paura più profonda, è di essere potenti oltre ogni limite. E’ la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più. Ci domandiamo: “Chi sono io per essere brillante, pieno di talento, favoloso? ” In realtà chi sei tu per NON esserlo? Siamo figli di Dio. Il nostro giocare in piccolo, non serve al mondo. Non c’è nulla di illuminato nello sminuire se stessi cosicché gli altri non si sentano insicuri intorno a noi. Siamo tutti nati per risplendere, come fanno i bambini. Siamo nati per rendere manifesta la gloria di Dio che è dentro di noi. Non solo in alcuni di noi: è in ognuno di noi. E quando permettiamo alla nostra luce di risplendere, inconsapevolmente diamo agli altri la possibilità di fare lo stesso. E quando ci liberiamo dalle nostre paure, la nostra presenza automaticamente libera gli altri”. Questo brano, erroneamente attribuito a Nelson Mandela, è forse il più famoso di Marianne Williamson, scrittrice e influencer spirituale. Originaria del Texas, affianca l’attività di scrittrice all’impegno nella lotta contro la povertà e l’esclusione: fonda nel 1989 il Project Angel Food, che consegna pasti a domicilio ai malati di Aids di Los Angeles, e oggi è attiva come formatrice in seminari e workshop dedicati alle donne che desiderano entrare in politica. Il suo approccio alla spiritualità attinge dai valori dell’ebraismo in cui è nata e cresciuta e allo stesso tempo da uno spirito di sincretismo con le altre religioni e filosofie. Una riletta al suo brano più famoso, e non possiamo che concordare con ciò che scrive di lei un giornalista del Jewish Journal: “Non amo i guru new age, preferisco la spiritualità tradizionale, ma Marianne Williamson, she’s something, è qualcosa”.

 

 

DEBORA

“…la terra tremò, i cieli si scossero,

le nubi si sciolsero in acqua.

Si stemperarono i monti

davanti al Signore…”

Allo scienziato Markus Reiner questa immagine del Cantico di Debora (uno degli esempi più antichi di poesia ebraica) è piaciuta così tanto che ha chiamato “numero di Debora” quel numero adimensionale che in reologia caratterizza la fluidità dei materiali. Anche nel testo biblico siamo in un tempo fluido, a tratti deformato. Scandito da guerre, difficoltà e nessuna certezza per il futuro. Debora (o Deborah, Dvora) è Giudice e Profetessa sotto la sua palma. Risolve le dispute, media i conflitti e prepara l’esercito di Barak per la battaglia contro Sisara. Lo avverte però, la gloria di ucciderlo non è destinata a te, ma a una donna. Sarà Yael infatti (o Giaele) a ingannare il capo dell’esercito nemico e assassinarlo. Anche Debora è una guerriera, ma la sua arma è la parola. Sul Monte Tabor, nessuno è disposto a iniziare la battaglia senza il suo incoraggiamento. Debora sprona, incita, convince. Non è un caso che nel suo nome risuoni la radice di “parlare”. Ma Debora significa anche “ape”: miele per il suo popolo (è una “Madre di Israele”), ma pungiglione per chi attacca l’alveare. Che dopo l’intervento eroico della moglie di Lapidot (o, come propongono altre traduzioni, della “donna di fiamme”), godrà finalmente di quaranta, lunghi anni di meritata pace.

 

 

HELEN SUZMAN

“Non ci piace la tua voce gracchiante da ebrea”, non è certo la peggiore tra le frasi che le sono state rivolte. Dal 1961 al 1974, quella voce gracchiante da ebrea è la sola e l’unica che dai seggi del parlamento sudafricano si leva contro l’apartheid. Nata in un sobborgo di Johannesburg come Helen Gavronsky, figlia di immigrati lituani sfuggiti ai pogrom dell’impero zarista d’inizio Novecento, la sua battaglia per i diritti umani e l’uguaglianza vanta 36 anni di presenza in Parlamento e, dopo il 1989, molti altri di impegno extraparlamentare. Helen Suzman non sta mai zitta. Nel suo primo giorno in Parlamento come unica rappresentante del Progressive Party, unica forza di opposizione alle politiche di apartheid pronuncia 66 discorsi, propone 26 emendamenti e pone 137 domande. Più o meno lo stesso ritmo nei giorni e negli anni a venire. Non sta mai zitta e non ha mai paura. Alle numerose chiamate oscene che la tormentano risponde fischiando nella cornetta del telefono. Per molto tempo, è la sola donna che abbia il permesso di visitare le carceri: anche Mandela riconosce il suo contributo nel miglioramento delle condizioni dei prigionieri, incluse le sue. Sa che la vittoria non può passare dai sotterfugi: si scontra con gli stessi sostenitori di Mandela quando, nella speranza di accelerarne la scarcerazione, vorrebbero farlo passare per mentalmente piegato e instabile. Helen Suzman si ritira dalla politica a 72 anni, pochi mesi prima della liberazione di Madiba; poche come lei oggi ci ricordano che amare il proprio Paese va perfettamente d’accordo con il denunciare senza riserve quello che non va; e quando, sul tema dei diritti, ci perdiamo nella caoticità delle informazioni, delle opinioni e delle fonti, ci guida con il suo semplice, intaccabile motto: “Vai e guarda tu stesso”.

 

 

HABIBA MESSIKA

Tunisi, 23 febbraio 1930. Le autorità del Protettorato Francese sono in allarme. Il Direttore della Sicurezza Pubblica annota: “Non si era mai visto qui niente del genere”. A preoccupare tanto i francesi è la massa di circa cinquemila persone che, in una processione di due chilometri e mezzo, segue il feretro di una cantante e attrice ebrea, assassinata da un suo vecchio amante, Eliahou Mimouni, che non le ha perdonato la fine della relazione. Due mattine prima, si è introdotto furtivamente nella sua casa e, prima di appiccare il fuoco, l’ha cosparsa di benzina. Habiba, “l’amata di tutti”, è la prima vera superstar del Nordafrica. Di vero nome Marguerite, è una figlia della Hara, il povero quartiere ebraico della capitale. Viene introdotta al mondo dello spettacolo dalla zia, Leila Sfez, già cantante affermata: in pochi anni esplode il fenomeno. Habiba invade come un tornado quelli che nel vivere tradizionale nordafricano sono i luoghi degli uomini. Balla, canta e recita di tutto (spesso in ruoli maschili) in Tunisia e in Europa. Non accetta limiti e imposizioni, detta le sue regole alle etichette discografiche e ai registi di teatro che se la contendono. “Un temperamento di fuoco sotto le sue grazie d’orientale”, dirà di lei Coco Chanel dopo averla conosciuta a Parigi. La vediamo nell’Otello, nell’Amleto, nel Majnoun Laila. La sua voce interpreta la musica andalusa, il folclore tunisino, ma non disdegna quei brani trasgressivi che tutti conoscono e nessuno canta, come “Il profumo della cocaina” dell’egiziano Sayed Darwish. Nel 1925, nel panni di Romeo, scambia un bacio sulle labbra con Giulietta (l’attrice ebrea libica Rachida Lotfi), nel teatro municipale di Tunisi. Lo scandalo è tale che molti presenti minacciano di incendiare il palcoscenico. A proteggere la loro diva sono gli “Asker Ellil” (i soldati della notte), vero e proprio fenomeno di fanclub ante litteram di cui fa parte, tra gli altri, il futuro primo presidente della Tunisia indipendente, Habib Bourguiba. Nel 1928, si fa arrestare dalle autorità coloniali per aver scandito slogan indipendentisti. Nei mesi successivi alla sua morte, la circolazione di certi suoi dischi è osteggiata, per timore che infiammi rivendicazioni nazionaliste. Habiba fa tutto quello che una brava donna nordafricana di inizio Novecento non dovrebbe fare: vive passando da uno scandalo all’altro, libera e indifferente alle critiche. E la folla va in delirio per la sua autenticità. Amante prima di un ministro del Bey, poi del principe Fouad d’Egitto, ha da poco intrecciato una nuova relazione con un amico d’infanzia, quando la sua morte tragica la consacra al mito. 27 anni di vita eccezionale, sempre nel segno dell’elemento che più le somiglia: il fuoco.

 

 

ILANA YAHAV

Cosa facciamo in genere con la sabbia? Siamo sinceri: il punto più alto di creatività l’abbiamo probabilmente toccato tra i quattro e i cinque anni, quella volta che abbiamo rovesciato la forma del secchiello grande e poi sopra la forma del secchiello piccolo e siamo così diventati gli orgogliosissimi costruttori del castello con torre più bello di tutta la spiaggia. Ilana Yahav fa arte con tre sole cose: la sabbia, la musica e la luce. Ah, e naturalmente, le mani. Nessuna delle sue emozionanti esibizioni è uguale all’altra. In pochi minuti scorrono davanti agli occhi paesaggi, volti, animali e città. Sembra dirci che non è ciò che abbiamo, ma come lo usiamo che conta. Difficile preferire una performance a un’altra, noi per oggi scegliamo “Home is where the heart is” che ci piace davvero tantissimo! E come potrebbe essere altrimenti?

Silvia Gambino
Responsabile Comunicazione

Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.


1 Commento:

  1. Che storie interessanti, bellissime, ne conoscevo alcune, ma le ho trovate tutte avvincenti, sarebbe bello approfondirle e farne un libro …magari Silvia ci penserà. ..


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.