Filosofia di un capolavoro a quarant’anni dalla sua uscita nelle sale cinematografiche
Sono passati quaranta anni dall’uscita di Zelig, il film di Woody Allen sull’omonimo uomo camaleonte, e mai come in questo caso si può dire che sembra ieri. Non solo perché il film non mostra segni di invecchiamento, ma soprattutto perché i problemi che raffigura sono oggi più che mai attuali. Ed è probabile che di identità, fondamentalismo, fluidità, uniformazione e conformismo non smetteremo tanto presto di discutere né in generale né nella specifica declinazione ebraica a cui spesso e volentieri il piccolo gioiello di Allen allude.
Camaleonti
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Se ci si prende qualche minuto e ci si pensa su – magari dopo aver visto o rivisto il film – la storia messa in scena da Allen evoca una serie di dimensioni camaleontiche. Tanto per cominciare, camaleonte è il film come opera d’arte e prodotto culturale. Zelig lancia un nuovo genere, quello del finto documentario, fictionary in inglese, che corrode la separazione rigida tra generi, toni e ordini del discorso. Il film è infatti un documentario costruito secondo le tradizionali procedure del genere – immagini di repertorio, voce fuori campo di un narratore onnisciente, spezzoni di interviste. Però è completamente falso. La storia che racconta, quella dell’ebreo Zelig che cambia volto, espressione e anche pensiero con il cambiare del contesto in cui si trova – indiano tra gli indiati, cinese tra i cinesi, chassid tra i chassidim – è una favola. Abbiamo così una storia inventata mascherata da vicenda vera che ci ricorda che la history (la storia come insieme dei fatti accaduti) è sempre anche una story (storia come racconto di quei fatti), almeno dal momento in cui viene narrata, scritta o comunque trasmessa. In ogni racconto, dice Zelig, i fatti e il modo con cui vengono comunicati i fatti non sono elementi che rimangono separati; al contrario, nel paiolo della storia si amalgamano dando per risultato un composto nuovo – buono o cattivo secondo le occasioni e i palati. Allen si ingegna a mescolare finzione e verità per confondere lo spettatore e obliterare classificazioni e differenze rigide. Un colpo da maestro sono in questo senso le interviste a esperti veri e noti – tra gli altri Susan Sontag, Saul Bellow e Bruno Bettelheim – che seriamente discettano di estetica, psicoanalisi, totalitarismo e desiderio di fusione nella massa. Le potenzialità di ogni testo e nel caso particolare di un film, dice Woody Allen, sono indefinite. Cosa è documentario? Cosa è fiction?
Non solo il film, comunque, perché in Zelig i camaleonti si moltiplicano come in un’opera di Andy Warhol. Camaleonte è l’artista e pure l’arte e lo spettatore che guardando partecipa alla performance. L’artista – cioè l’attore – cambia voce, costume, personalità e ruolo sociale con il cambiare della parte, mostrando che la personalità umana sul palcoscenico è malleabile, fluida come un liquido capace di rimodellarsi nella forma della bottiglia che lo contiene. Va da sé che nella misura in cui palcoscenico è mondo e teatro (o cinema) è vita, non ci sono più esseri umani con una individualità stabile nel tempo e nello spazio ma soltanto ruoli. Non caratteri dati una volta per tutte ma figure in perpetua trasfigurazione. Un discorso analogo vale per lo spettatore che – lo segnalava già duemilaquattrocento anni fa Aristotele – ha paura quando il personaggio che vede in scena ha paura, gioisce quando quello gioisce, soffre quando soffre e così via. È come un carnevale in cui le posizioni sociali (“chi si è davvero”) saltano permettendo anche al villano di essere re e unendo in una sola mascherata povero e ricco, nero e bianco, donna e uomo, ebreo e non ebreo – tutte figure assunte dal camaleonte Zelig. Tra i tanti camaleonti che spuntano qui e là tra le pieghe del film citiamo ancora il sé, il soggetto che almeno dai tempi di Freud scopre di non essere più padrone a casa propria. Zelig manca di sostanza e di individualità, non ha profondità psicologica e biografica. La sua storia ride delle pretese del soggetto nella filosofia moderna da Cartesio a Kant, è un’antimonade che – rovesciando Leibniz – è solo finestre e niente muro. Afferma una realtà sola e somma, quella del cambiamento incessante.
L’ebreo camaleonte
Zelig è ebreo, e come potrebbe essere diversamente? Ci si può chiedere allora se sia camaleonte perché ebreo o ebreo perché camaleonte. Secondo una tesi antica che anche oggi annovera alcuni buoni argomenti la civiltà ebraica è civiltà della differenza, insomma una civiltà che si fonda sull’autopercezione di essere altro rispetto alla maggioranza che detiene il potere. Non una differenza fondata su una presunta scelta divina ma su una scelta umana di responsabilità, etica e polemica contro le innumerevoli idolatrie che ci circondano. A partire dall’emancipazione e dalla conquista per molti di un tenore di vita in linea con il benessere delle società occidentali – e arrivando alla nascita dello Stato di Israele e al tentativo in corso di rabbinati e nuove ortodossie di guidare verticisticamente l’intero mondo ebraico – sorgono questioni nuove. La demografia dell’ebraismo americano ed europeo è in significativa contrazione se si adotta un criterio di computo ristretto sulla base della halakhà per stabilire chi è ebreo, non lo è invece se si considerano ebrei tutti coloro che hanno un genitore ebreo e tantomeno se ci si basa sulla legge del ritorno per la quale è sufficiente un nonno ebreo. Oggi, come quaranta anni fa, nelle comunità ebraiche sono di attualità le discussioni sull’identità. Che cos’è l’identità ebraica? Chi è ebreo? Ci sono ebrei autentici e ebrei inautentici, ebrei buoni e cattivi, ebrei a metà, per un quarto, per un ottavo? Il contributo di Woody Allen sembra essere qualcosa di simile a una linguaccia – una linguaccia da camaleonte. Eccola qui l’identità, ci dice il regista mostrandoci il caleidoscopio delle forme assunte e perse da Zelig.
Antisemitismo
C’è chi dice che l’esperienza storica ha reso gli ebrei particolarmente sensibili alla dimensione teatrale della vita con i suoi ruoli che cambiano, le maschere e i personaggi. Sensibili ai cambiamenti di luogo e lingua, capaci di porsi innanzitutto come cittadini del mondo e solo poi ed eventualmente come appartenenti a singole piccole patrie, aperti al cambiamento e al movimento, portatori contemporaneamente di più identità. Un po’ come i camaleonti insomma. Tutto questo si può dire così, ma si può dire anche in modo del tutto diverso, cioè facendo un discorso antisemita. Per gli antisemiti gli ebrei sono subdoli indossatori di maschere, viscidi ammaliatori che cambiando aspetto in base alla convenienza del momento ingannano il popolino e controllano media, finanze e governi. Come Zelig sono camaleonti, quindi rettili. Rettiliani, direbbe qualcuno.
Come insegna lo humour ebraico, il modo migliore per smontare i più radicati stereotipi è assumerli. In Zelig sono infatti numerosi i rimandi all’antisemitismo. Un fondamentalista cristiano denuncia la poligamia di Zelig e invita a “linciare l’ebreuccio”. Il KuKlux Klan lo attacca. Durante scontri di strada con gli antisemiti, lamenta Zelig, i miei genitori erano dalla loro parte. Quando Zelig si trasforma in rabbino, alcuni francesi cercano di spedirlo come Dreyfus all’Isola del diavolo. Dilaniato dalla sindrome da odio di sé, imbocca la fuga senza fine delle trasformazioni. A un certo punto ecco una traccia: Zelig sotto ipnosi rivela di cambiare aspetto perché “è sicuro”. Insomma sceglie il mimetismo per ragioni di sicurezza come tanti prima di lui da Mosè in Egitto nel midrash a Ester alla corte del re di Persia fino ai marrani in età moderna e ai fautori dell’assimilazione tra Ottocento e Novecento. Inutile aggiungere che dimostra in materia un talento particolare. La cosa decisiva tuttavia è un’altra, e precisamente il fatto che Zelig riflette la pluralità dell’esperienza di vita ebraica nel corso almeno dell’ultimo millennio, una pluralità forgiata dalla triplice azione della pressione esterna (in alcune circostanze violenta), una formidabile memoria centripeta e lo scambio bidirezionale con le civiltà maggioritarie. Ma la pluralità, o se si preferisce l’eredità ebraica camaleontica, è esattamente ciò che gli antisemiti non tollerano. C’è una traccia che unisce l’immagine sciovinista e nazista dell’ebreo tanto più traditore quanto più assume in tutto e per tutto le sembianze di tedesco, quella staliniana del cosmopolita internazionalista (“trockista”) oppure nazionalista (“sionista”) e quella oggi largamente diffusa del finanziere e usuraio (per esempio nell’immagine di Soros). In tutti questi casi il camaleontismo morfologico è funzione di pluralità, doppia identità e dunque doppia fedeltà – cioè nessuna fedeltà -, viltà e tradimento.
L’idolo dell’identità
Zelig raffigura la perdita di identità, di un volto e di un posto nel mondo. Come abbiamo visto l’erosione delle identità – a partire da quella ebraica – sgretola i confini tra la propria comunità e le altre comunità, ma anche tra sé come individuo e gli altri individui e all’interno del sé. A un certo punto arriva l’annuncio più atteso: Zelig è guarito. In una splendida giornata di sole lo vediamo in campagna con il dottor Mayerson, al quale scappa un commento sul bel tempo. Zelig, addestrato ormai “a dare voce intrepidamente alle proprie opinioni”, non è d’accordo. Sostiene che il tempo sia pessimo e quando Mayerson si azzarda a insistere, afferra un rastrello e giù botte. Zelig è guarito un po’ troppo. Il culto delle proprie opinioni e della propria identità, suggerisce Allen, non è la soluzione al camaleontismo ma una parte del problema; non a caso in un batter d’occhio Zelig ricade nella girandola delle trasformazioni. L’identità rappresenta forse nient’altro che il modo con cui vogliamo raffigurarci a noi stessi e agli altri e in questo senso cambia continuamente. Quando però l’identità viene trasformata in qualcosa di oggettivo, statico, come se avesse realtà propria, ecco l’idolo, con il suo naturale corollario di violenza. La parabola di Zelig mette alla berlina camaleonti e rastrellatori, assimilazionisti e identitaristi. Ci sono alternative mediane tra i due estremi di perdita dell’identità e fondamentalismo? Tra la dissociazione dal sé in una fluidità uniformante e l’identitarismo disposto a tutto, ma proprio a tutto, pur di affermare le proprie ragioni?