Zeruya Shalev vista da vicino. Un’autrice capace di creare intrecci in cui la dimensione storica e universale è strettamente connessa con quella individuale e psicologica
Diversi anni fa, quando ero responsabile culturale della Comunità ebraica, invitai Zeruya Shalev a Firenze per parlare del suo ultimo libro. Una donna gentile, che non faceva minimamente pesare il fatto di essere la scrittrice più nota e amata in Israele, al pari del mostro sacro Amos Oz, con cui Shalev tra l’altro ha sempre avuto una fitta corrispondenza.
Mi chiese di accompagnarla alla stazione dei treni, dato che doveva proseguire il tour di presentazioni. Prima facemmo una sosta nei negozi vicini alla stazione, come due amiche che fanno shopping, perché lei voleva acquistare un paio di leggings per sua figlia. Poi arrivammo ai binari e a quel punto cambiò immediatamente umore. Mi rivelò che dall’epoca dell’attentato in cui era rimasta coinvolta nel 2004 (l’azione suicida di un palestinese a Gerusalemme) aveva difficoltà a restare da sola in luoghi aperti. Avrei potuto dirle che era piuttosto difficile che alla stazione di Firenze ci fosse un kamikaze pronto a farsi esplodere, ma capii che mi stava comunicando qualcosa di intimo e personale, la sua fragilità. Rimasi molto colpita e ammirata da quella sincerità disarmante, il mostrarsi senza veli a una perfetta sconosciuta. Perché Shalev è così anche in quello che scrive: sa indagare l’animo umano con uno stile poetico, colto, intriso di citazioni bibliche, ma riesce anche a creare un rapporto immediato di onestà e autenticità con il lettore, vi si consegna.
Qualche anno dopo uscì Dolore il testo nel quale, attraverso il personaggio di Iris, l’autrice si immergeva in una sensazione fisica di sofferenza, anche qui riappariva l’ombra dell’attentato, a cui la protagonista del libro è sopravvissuta. Ma chiaramente si allude a un dolore metaforico dell’anima, a ferite interiori che non si sono mai rimarginate e che sarà possibile lenire dopo un lungo processo. Da Dolore adesso arriviamo a Stupore («che bello l’italiano che crea questa assonanza tra i due libri» commenta divertita l’autrice), uscito in Italia per Feltrinelli. Si parla di un incontro, quello tra Atara, cinquant’anni, un’architetta e Rachel, un’anziana, la prima moglie del padre di Atara. Le due non si sono mai incontrate ma sono legate dal ricordo dell’uomo appena morto. Rachel ha vissuto un’esperienza importante con lui: ha condiviso la resistenza, è stata una combattente contro l’occupazione inglese tra il 1940 e il 1948.
Le due donne troveranno nella loro relazione un senso per il dolore comune legato alla perdita: Rachel rivive l’abbandono del compagno di vita e di lotta mentre Atara accusa il vuoto lasciato da un genitore da cui non si è mai sentita amata. L’unico momento in cui il padre le ha rivolto un complimento è stato quando l’ha incontrato per l’ultima volta in ospedale e lui le ha detto: “quanto sei bella”. Ma Atara ha capito che non stava parlando a lei, l’aveva scambiata per un’altra persona, per Rachel. Per un attimo la figlia ha percepito il padre come un estraneo che ha avuto una vita a lei ignota e comprende che lei la vuole, la deve conoscere per guarire. Eccola quindi bussare alla porta di Rachel che desidera dimenticare, tanto quanto lei vuole sapere.
L’autrice ha la capacità di costruire un intreccio in cui la dimensione storica e universale è strettamente connessa con quella individuale e psicologica. Del resto – ammette – ha impiegato sei anni a scrivere il romanzo. Il personaggio di Rachel le si è presentato quasi per caso, un’epifania improvvisa e all’inizio non voleva scriverne, le sembrava intriso di fanatismo, di ideologia. Non è la prima volta che gli scrittori israeliani contemporanei si rivolgono al periodo dell’occupazione britannica (penso a Le diciotto frustate di Assaf Gavron, Giuntina) ma qui il focus è forse per la prima volta su un personaggio femminile, totalmente devoto alla causa, a cui antepone tutto, perfino i suoi cari. Per Rachel quel periodo di vita e di lotte rappresenta un’esperienza unica e irripetibile, un’avventura esistenziale elettrizzante, un nucleo potente di energia lasciato ormai alle spalle.
La relazione che si crea tra le due donne offre a ciascuna uno spazio di accoglienza per il proprio lutto, un conforto. E come in tutti i libri di Shalev che affrontano in profondità il dolore, da cui l’autrice ammette di essere sempre attratta, si esce con un senso di liberazione dopo aver attraversato il trauma, di libertà e di fiducia nel futuro, con la speranza di una vita più autentica.