Cultura
Cosmopolitan landscape: così umano, così ebraico

Il rapporto tra città e letteratura ebraica che riscrive le relazioni sociali e la forma urbana

Il recente entusiasmo per il landscape è tangibile nelle più contemporanee progettazioni di spazi urbani sia in Francia che negli Stati Uniti (Bailly, É., 2012. L’Enjeu du paysage commun, rapport intermédiaire du programme de recherche Paysage et développement durable du ministère de l’Écologie, du développement durable, des transports et du logement (MEDDTL) – Commissariat général au développement durable (CGDD), Paris : Centre scientifique et technique du bâtiment (CSTB))., in cui i designer appaiono come veri project manager di operazioni di sviluppo e branding delle città, come dimostrato da Alexandre Chemetoff a Île de Nantes (Certeau, M. L’Invention du quotidien, 1990 Paris, Gallimard – Folio). Andando a vedere l’origine etimologica si vede che il concetto di landscape è in prevalenza associato alla terra (geografica e spazio politico) e anche alla rappresentazione pittorica e letteraria del mondo: un link con la dimensione culturale ed esperienziale.

Così se il paesaggio urbano diventa da un lato strumento di rottura contro l‘uniformità e la visione standardizzata delle città, come denunciato da Serge Latouche (La Planète uniforme, Paris, Climat, 2000), dall’altro è vettore delle relazioni delle persone con il luogo, superando la limitatezza della città-immagine. Un esempio si ha attraversando la 125^strada a l’East River a New York o il Bercy Village a Parigi, dove l’urban “décors”, la scenografia urbana diventa fiction e simulazione, un tableau vivente, un mondo fatto di entertainment, in grado di creare una connessione tra passato, presente e un futuro idealizzato. E qui la forma narrativa del linguaggio legato al landscape della città diventa poetica e metafisica delle relazioni tra i gruppi omogenei che vivono la città (Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Paris, Gallimard 1945). Elemento fondamentale, come interpretò anche l’economista e scrittore Edward Glaser, per il superamento dell’urban divide, dell’auto-segregazione di stampo etnografico che taglia e separa parti di città con fili invisibili ma con segni ben visibili sul territorio e nelle relazioni sociali stesse.

Nel cercare di agire su questo la letteratura ebraica, soprattutto a partire dagli anni sessanta ad oggi, ha avuto un ruolo molto rilevante proprio nella creazione di un mito metropolitano, cosmopolita, in grado di generare inaspettati effetti broadcasting della cultura con conseguente “umanizzazione” e “poetizzazione” della percezione della città stesse. Città che si caricano e nutrono di simboli e miti creativi vestiti dalle nuove forme narrative capaci di restituire valori umani e umanesimi spirituali.
Spazio e umanità diventano l’affresco sociale che Malamud, nei suoi racconti fatti di piccoli bottegai, garzoni indebitati, artisti falliti, mogli che tirano avanti stoicamente e con coraggio un’esistenza fatta del trittico pascaliano di incostanza, noia inquietudine, dove, come afferma lo scrittore stesso, “ci sono ebrei dappertutto ” (anche italiano o irlandese che sia). Questa coralità sfugge alla struttura della tradizione ebraica post migrazione, perché Città come New York, o la corrispettiva latino americana Buenos Aires di Jorge Luis Borges e di Alejandra Pizarnik, sulla spinta della cultura ebraica diventano secondo Nathan Cohen “literary center” che promuovono la comunicazione letteraria, lo sviluppo di un processo di eredità della letteratura, producendo una literary generation (N. Cohen, Books, Writers and Newspapers: The Jewish Cultural Center in Warsaw, 1918–1942,  Jerusalem, Magnes Press, 2003). E in questo è facile trovare Cynthia Ozik, Philip Roth che, con il suo Nathan Zucherman afflitto dalla tradizione ebraica, del quale ne fa in qualche modo un suo brand ma anche un limite di vita, come nel revisionismo reale/immaginario di Anna Frank in “Lo scrittore Fantasma”, oppure nella rappresentazione serio comica della classe operaia o nell’attivismo femminista di Grace Paley. Autori accomunati dal rompere la tradizione ebraica, dall’uscire dal ghetto alla ricerca di una revisione del mito biblico in chiave di umanesimo. L’ebraismo che diventa “esperienza ebraica”, uno strumento per assaporare il mondo, una cultura del passato da ancorare alla fisicità non sempre tangibile delle moderne metropoli fatte di dinamiche di relazioni che la religione non sarebbe in grado di restituirne l’adeguato valore.

Diversi autori contemporanei come Michael Chabon, Tova Mirvis, Jonathan Safran Foer, Nathan Englander, Alicia Ostriker, Robert Pinsky, Rebecca Goldstein, Joshua Cohen, al contrario si riavvicinano alla tradizione, ne sono affascinati/attratti e cercano non la fuga ma il possibile compromesso con la modernità. I personaggi di Chabon non disdicono apertamente l’ebraismo, cercano trapianti e innesti. Basti pensare all’agente Meyer Landsman del “Sindacato dei Poliziotti yiddish” che si muove agilmente tra ortodossia e tradizione nello scenario alternativo del Distretto ebraico di Sitka in Alaska, dove il governo statunitense ha accolto i sopravvissuti della Shoah e del crollo del neonato Israele sotto l’attacco dei paesi arabi*. In “Eccomi”, Safran Foer rompe meccanismi della sacralità religiosa per valorizzare l’appartenenza alla cultura e all’esistenza stessa del popolo ebraico, diventando archetipo della condizione umana e delle sua fasi di vita. Englander, nato in una famiglia ortodossa, richiama in modo netto la cultura e la fede della tradizione, facendone una vetrina non in cui esporre, ma da cui osservare il mondo esterno e capire dove e come ci possono essere dei punti di contatto, come nei celebri racconti “Il Gilgul di Park Avenue” e “Peep Show”. Non a caso Safran Foer ed Englander si ritrovano insieme nei rispettivi ruoli di editor l’uno e scrittore l’altro di una versione “urbana”, artistica e americana dell’Haggadah di Pesakh (Haggadah, with a new translation by Nathan Englander, edited by Jonathan Safran Foer, Hamish Hamilton, Penguin books, 2012).

Questo sentire la vita ebraica, porla in relazione con l’esterno, creare ponti letterari, sono tutti segni ben definiti sulla mappa delle grandi città che genera flussi tra punti diversi, diventando fili di una rete visibile di comunicazione e scambio che sovrascrive la rete invisibile delle segregazioni urbane, ridisegnando il modo di vivere le città e di conseguenza la forma urbana .
Ed è così che la letteratura ebraica oggi, come settanta anni fa, prende la forma di ciò che c’è di più vicino ad un pennello che si muove creativo sulla tela della città formalizzando le nuove dinamiche relazionali, evolvendone principalmente i “localismi” o diventando anche solo strumento per sfuggire alla solitudine della propria condizione come nei versi di Alejandra Pizarnik (La figlia dell’insonnia, Crocetti editore, 2020.)

….“solo tu fai della mia memoria
una viaggiatrice affascinata,
un fuoco incessante”
(da Chi illumina)

 


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